I rischi sociali e psicologici connessi alla messa in atto dei comportamenti di cyberbullismo

Il termine Bullismo deriva dall’inglese “Bullying” e, secondo la definizione del vocabolario Treccani, indica “Comportamento da bullo; spavalderia arrogante e sfrontata. In partic., atteggiamento di sopraffazione sui più deboli, con riferimento a violenze fisiche e psicologiche attuate spec. in ambienti scolastici o giovanili”. Laddove per Cyberbullismo si intende: “Bullismo virtuale, compiuto mediante la rete telematica. Composto dal confisso cyber- aggiunto al s. m. bullismo”.

Il bullismo può essere considerato una sottocategoria del comportamento aggressivo, che è da sempre ritenuto necessario nel processo di sviluppo e maturazione di ogni individuo. Già Freud aveva individuato libido e aggressività come istinti di base. E, nella realtà in cui ci troviamo a vivere oggi, il tema dell’aggressività risulta essere sempre più attuale e assume una forte rilevanza, di carattere psicologico e sociale.

Il bullismo si contraddistingue per l’esistenza di tre caratteristiche fondamentali, che lo rendono tale e, in assenza delle quali, non è possibile effettuare una classificazione di determinati comportamenti aggressivi all’interno di questa grande famiglia.  Bisogna essere in presenza di intenzionalità del comportamento, persistenza nel tempo e asimmetria di potere. Ci si riferisce pertanto ad un tipo di violenza, ovvero di oppressione psicologica e/o fisica, che viene ripetuta e continuata nel tempo, da parte di una persona, o di un gruppo di persone, nei confronti di individui che vengono percepiti come più deboli. Il bullismo tradizionale si è evoluto in forme differenti e, in particolar modo, ad oggi risulta molto diffuso nella forma di “Cyberbullying”. Di fatto, le caratteristiche alla base del comportamento risultano le stesse. Quello che cambia sono le modalità con le quali le violenze vengono messe in atto e perpetrate. Con l’evoluzione di nuove tecnologie abbiamo assistito anche ad una trasformazione dei mezzi di comunicazione, ed è per tale motivo che si parla di “comunicazione digitalizzata” e “new media”. Difatti, con il termine cyberbullismo ci si riferisce a tutti quei comportamenti vessatori che vengono posti in essere nel cyberspace o tramite il cyberspace, ovvero i differenti dispositivi tecnologici a disposizione sia dei bulli, che delle vittime (attraverso SMS, MMS, e-mail, messaggistica istantanea, etc.). Il cyberbullismo è pertanto un comportamento intenzionale, attuato da uno o più soggetti, ripetuto nel tempo, verso altri più deboli, utilizzando immagini o frasi veicolati nel o tramite cyberspace. Il carattere di ripetitività nel tempo assume una rilevanza particolare in questi casi. Basti pensare, a titolo di esempio, ad un video denigratorio caricato su un qualsiasi social network. In pochi minuti potrebbe ottenere un grandissimo numero di visualizzazioni (tipico caso di video che viene definito “virale”), e causare delle gravissime conseguenze, sia in termini di ripercussione sociale che psicologica, a sfavore ovviamente della vittima designata. Quest’ultima può sentirsi perseguitata, minacciata, umiliata, attraverso tali mezzi tecnologici di diffusione di massa (quali internet, dispositivi mobili, chat, telefoni cellulari, etc.). Generalmente le violenze vengono perpetrate tra coetanei e, quando vengono coinvolti gli adulti, si parla di “Cyberstalking”. Si va dal masquerading («mascherarsi»), ovvero il furto di password e l’invio a nome della vittima di messaggi offensivi o imbarazzanti, al flaming («infiammare»), vale a dire l’irruzione in forum e chat con il preciso scopo di creare disaccordo e litigio fra i partecipanti, per finire all’uso dei videofonini con cui fare alla vittima foto o video, da pubblicare a sua insaputa su siti più o meno sconvenienti. Purtroppo, sono stati diversi i casi di cronaca che hanno mostrato quanto possano essere drammatiche per le vittime le conseguenze di queste azioni, fino ad arrivare a diversi casi di suicidio.

Dal punto di vista emotivo i comportamenti violenti, realizzati tramite cyberspace, vengono vissuti con un grado maggiore di distacco, una sorta di “raffreddamento emotivo”, rispetto alle violenze perpetrate nella realtà di tutti i giorni. I bulli e le vittime vengono percepiti, in un certo senso, come attori all’interno di una sequenza cinematografica, o protagonisti di un videogioco, ai quali tra l’altro, spesso, si ispirano. La portata dei comportamenti aggressivi non viene valutata in maniera reale, concreta, e il rischio è relativo al fatto di sottostimare le conseguenze rovinose che le suddette violenze riescono a generare. Anche il senso di colpa, solitamente non viene vissuto, o al massimo viene percepito a distanza. In un certo senso è come se si realizzasse un “appagamento allucinatorio” dell’istinto aggressivo, anche per coloro che assistono in maniera indiretta agli atti di bullismo. Semplificando, è lo stesso meccanismo che agisce nel momento in cui si assiste alla visione di programmi o film violenti, ovvero si usano videogiochi che stimolano l’aggressività e che, erroneamente, alcuni affermano possano essere utili come “vettori di scarico”.

Dal punto di vista più strettamente comunicativo, la combinazione tra computer e internet ha dato vita alla “comunicazione mediata da computer” (CMC), che comprende numerose attività e modalità di comunicazione. Tale tipologia di comunicazione rende il processo di interazione molto differente rispetto a quello a cui siamo abituati nelle interazioni faccia-a-faccia.

Innanzitutto, nella CMC sono assenti gli aspetti di metacomunicazione, che caratterizzano la conversazione quotidiana e che indicano come intendere i contenuti di ciò che è comunicato. Infatti, la mimica facciale, la postura, il tono della voce, ecc. indicano quale significato attribuire all’atto comunicativo in corso. Per questo spesso vengono utilizzati simboli grafici rappresentanti un volto stilizzato, chiamati “emoticon”, che simulano la mimica facciale. Inoltre, la CMC non offre garanzie sull’identità dei soggetti. Questo aspetto in particolare può essere molto pericoloso se utilizzato con intenzioni malevole nei confronti dell’altro, come avviene appunto nei casi di cyberbullismo. Altro punto interessante da notare riguarda l’impegno, in particolar modo nella CMC asincrona. La cooperazione tra i soggetti dell’interazione non sempre è presente, perché si può decidere di non rispondere e interrompere pertanto la comunicazione. A differenza della comunicazione faccia-a-faccia che si svolge comunque sempre in una situazione cooperativa controllata da una serie di successivi adattamenti. La CMC inoltre è caratterizzata da una notevole presenza di atti comunicativi disfunzionali, in quanto l’asimmetria della comunicazione, insieme alla difficoltà di identificazione dell’interlocutore, ha condotto alla diffusione di atti comunicativi disfunzionali assimilabili alla discomunicazione. Per esempio, il “lurking” consiste nell’osservare l’andamento di una discussione senza partecipare e senza segnalare di essere presente, lo “spamming” prevede l’invio di messaggi non desiderati spesso di natura commerciale, il “bombing” consiste nell’inviare allo stesso soggetto centinaia di messaggi fino a bloccargli la possibilità di comunicare con l’esterno. Infine, la CMC non consente una precisa definizione nell’alternanza dei turni negli scambi comunicativi.

Dal punto di vista della vittima, spesso è proprio la paura che spinge la persona che subisce le violenze a sottostimare i rischi connessi alla situazione di attacco. Questo avviene in misura maggiore soprattutto nei casi in cui le vessazioni non vengono effettuate di persona, ma attraverso le nuove tecnologie. Dietro lo schermo di un computer, o attraverso il cellulare, le persone si sentono maggiormente al sicuro, tendono a considerare i rischi come minori, meno probabili, o addirittura a non considerarli affatto, avendo la percezione di stare al sicuro, in un ambiente protetto, interagendo da casa, e non avendo un contatto diretto con il bullo. A maggior ragione, questo rischio aumenta nel caso dei bambini, che spesso non hanno ancora sviluppato, a livello cognitivo, le capacità critiche di ragionamento che risultano utili a discernere le intenzioni malevole di determinati comportamenti, e le conseguenze che possono essere causate dalla loro messa in atto. In particolar modo gli effetti delle violenze subite possono intaccare la sicurezza in se stessi e influenzare il livello di autostima, perché uno degli aspetti più dannosi è vedere che gli altri assistono alle prevaricazioni senza intervenire per prestare aiuto alle vittime. Inoltre, ci sono degli effetti a lungo termine, evidenziati in alcune ricerche effettuate su bimbi vittime di violenze, che risultano avere maggiori probabilità di soffrire di depressione, nonché di fumare, abusare di alcol e sostanze stupefacenti, negli anni successivi all’episodio. Un’altra recente ricerca (Görzig, 2016) ha evidenziato una tendenza relativa ad una maggiore visualizzazione di pagine e siti legati all’autolesionismo e al suicidio da parte di coloro che erano coinvolti nel cyberbullismo rispetto a chi non lo era.

È necessario prestare attenzione a dei segnali che potrebbero aiutare i genitori a riconoscere se i propri figli sono vittime di atti di bullismo o cyberbullismo. Alcuni dei più evidenti verranno elencati di seguito: cambiamenti nelle abitudini quotidiane (es. sonno e/o alimentari) e nell’umore (chiusura, ansia, ecc), atteggiamento nei confronti delle tecnologie, problemi scolastici (sino al rifiuto di andare a scuola), perdita di interesse generale in relazione a differenti attività. In tali casi sarà utile non sottovalutare gli episodi che vengono raccontati, ovvero i “campanelli di allarme” precedentemente elencati, supportare i propri figli per favorire un recupero della stima di sé e delle proprie capacità di resilienza e di contrasto alle prevaricazioni, ascoltare empaticamente i loro bisogni, affrontare insieme le paure ed evitare di favorire lo sviluppo di sensi di colpa. Sarebbe opportuno altresì evitare reazioni eccessive di allarme o di rabbia, nonché una demonizzazione delle tecnologie. Andrebbe favorito invece un uso consapevole e protetto di tali strumenti, incoraggiando i bimbi a riconoscere le differenze tra i diversi usi che se ne possono fare.

Per quanto attiene i genitori dei bulli invece, è opportuno mettere in atto determinati comportamenti per aiutare i figli ad uscire dalla spirale della violenza. In primo luogo, bisogna evitare di fornire un cattivo esempio. Tentare di reprimere i comportamenti violenti con altra violenza, sarebbe come cercare di spegnere il fuoco buttandoci sopra altra benzina. Non si farebbe altro che incrementare ulteriormente il livello di rabbia che questi ragazzi provano, nei confronti di se stessi e degli altri. Non si dovrebbe minimizzare o giustificare alcun comportamento, magari asserendo che sono solo “ragazzate”, ma aiutare i bulli a rendersi conto della gravità e delle conseguenze delle proprie azioni. In effetti, a loro manca proprio la consapevolezza in relazione ai comportamenti che mettono in atto. Sono carenti, in molti casi, di capacità empatiche e delle abilità caratteristiche della cd. “teoria della mente”, ovvero della possibilità di mettersi nei panni degli altri. Di conseguenza sottostimano le conseguenze, fisiche e psicologiche, delle proprie azioni. Inoltre, i bulli sono costantemente alla ricerca di approvazione, di un ruolo, ovvero di riconoscimento. Bisogna insegnargli un’altra modalità di interazione con l’altro, spogliarli di quel ruolo che li fa sentire forti, rivedere le proprie modalità educative, con l’obiettivo di favorire relazioni positive. Ovviamente, sarà necessario anche un controllo sull’uso che viene fatto delle tecnologie, permettendo di utilizzarle, ma in “modalità protetta”.

In conclusione, le nuove tecnologie, sebbene abbiano aperto uno spazio di crescita delle possibilità di interazione tra soggetti, superando tutte le barriere fisiche che causano una limitazione nelle interazioni faccia-a-faccia, richiedono necessariamente un adattamento e l’adozione di una nuova “grammatica comunicativa”. In particolar modo i bambini e gli adolescenti, in questi casi, andrebbero educati a riconoscere i comportamenti violenti come tali. Soprattutto dovrebbero essere incoraggiati a parlarne con gli adulti di riferimento, siano essi genitori, insegnanti o altro. Il grande rischio è relativo al fatto che, molte volte, gli atti violenti non vengono denunciati, e le vittime continuano a subire in maniera passiva. A maggior ragione perché, in molti casi, gli spettatori restano passivi e non forniscono alcun aiuto alla vittima, anzi spesso sostengono i bulli, percepiti come più forti in virtù dell’asimmetria di potere che è, non a caso, una delle caratteristiche distintive del bullismo e del cyberbullismo. Aspetto che, ovviamente, diviene ancora più chiaro nel secondo caso, il cyberbullismo, di cui abbiamo parlato finora, laddove la distanza a livello emotivo viene facilitata dalle stesse modalità di perpetrazione degli attacchi. Per tutte queste ragioni, le conseguenze psicologiche, a breve e a lungo termine, non dovrebbero essere sottovalutate.

Per favorire uno spazio di dialogo, a supporto sia dei bulli che delle vittime, è stato costituito in ambito italiano il Centro nazionale anti-cyberbullismo (CNAC), che ha l’obiettivo di realizzare una collaborazione con le persone e le organizzazioni europee che ne condividono la missione e i principi. Permette alla vittima, alla famiglia, agli insegnanti o al cyberbullo di ottenere gratuitamente una consulenza per avere una prima valutazione legale del fatto e conoscere gli strumenti giuridici a disposizione per contrastare le violenze subite. Tra le attività del CNAC, sono previsti anche corsi di cyber coaching (formazione), dedicati a ragazzi e adulti (studenti, genitori, insegnanti o professionisti di vari settori), grazie anche alla partecipazione al progetto del MIUR “Generazioni Connesse” (https://anticyberbullismo.it/).

A cura di: Ilenia Mercuri

Profilo Autore

Cybersecurity Specialist - Human Capital di Deepcyber, coordina le attività di valutazione e sviluppo del c.d. "Human Factor", con focus sulle minacce alla sicurezza informatica in riferimento all'elemento umano, attraverso tecniche innovative di ingegneria sociale, gamification e simulazione (ad esempio, campagne di phishing, spear phishing, cyber games, ecc.).
“Cyber criminologa”, con Master in Scienze Forensi (Criminologia, Security, Intelligence, Investigazioni) presso La Sapienza (Roma) e tesi di master su ingegneria sociale, mind hacking e spear phishing.
Precedentemente, per molti anni, psicologa, psicoterapeuta e consulente specializzato in dipendenze comportamentali (es. Gioco d'azzardo patologico, dipendenze emotive, acquisti compulsivi, ecc.).

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