Nel settembre 2014 l’Islamic State diffonde online il suo primo lungometraggio di 55’ intitolato “Flames of War” mostrando all’audience globale la propria visione ideologizzata del mondo, con l’obiettivo di “coltivare” foreign fighters, soprattutto in Occidente, attraverso il racconto spettacolare e violento del progetto politico-militare e al contempo di attestazione ed espansione. Non può mancare la proclamazione del Califfato dalla Grande Moschea di al_Nuri, ed al_Adnani, capo dell’EMNI l’apparato informativo dell’Islamic State, ripete: “il conflitto è appena iniziato”. Il racconto si fonda principalmente sulle operazioni di guerra condotte da impavidi mujaheddin chiamati ad infierire senza pietà contro il nemico, scegliendo la vittoria o la shahada – la testimonianza di fede, qui identificata con il sacrificio nel combattimento. Nella rappresentazione filmica di un’epica demolizione del confine tra Iraq e Siria, le “fiamme di guerra” jihadiste vengono evocate affinché attraversino le terre dello Sham. È qui che la bandiera nera diviene emblema delle milizie dell’Islamic State impegnate nel conflitto siriano, per poi trasformarsi in simbolo mediale globalizzato delle Black Flags, nell’esortazione dei giovani jihadisti a conquistare con ogni mezzo l’Occidente.
Le fiamme devono avvolgere i crociati statunitensi intenti a diffondere in tutto il mondo, per bocca dei Presidenti che si sono succeduti, le proprie menzogne. Si devono colpire anche gli infedeli e i nemici presenti nel mondo arabo. La campagna di guerra viene raccontata mettendo in luce la fratellanza, la solidarietà e la preghiera che uniscono i combattenti al fronte, autolegittimati a compiere le barbare esecuzioni dei soldati siriani di cui sono colte le loro ultime testimonianze mentre sono intenti a scavare la fossa nella quale verranno gettati dopo essere stati sommariamente giustiziati.
Nel novembre 2017, a tre anni di distanza, dopo la caduta delle roccaforti jihadiste di Mosul e Raqqa, l’Islamic State dissemina attraverso il Web, il suo ultimo lungometraggio di 58’ dal titolo “Flames of War II” che si apre con l’affermazione della compiuta restaurazione del Califfato e mostrando più volte il Presidente USA, Donald Trump, mentre nel corso di un discorso afferma la necessità di “combattere il fuoco con il fuoco”, riferendosi alla minaccia jihadista. Dopo aver mostrato le vittime dei bombardamenti, vengono rivendicati e celebrati, come loro diretta conseguenza, gli attacchi jihadisti condotti negli USA, in Turchia ed Europa. Il tenore sadico-violento che caratterizza questo secondo video risulta essere di gran lunga superiore rispetto al precedente. Sgozzamenti, decapitazioni ed attacchi condotti dai giovani suicide-bombers nel teatro di guerra sono il leitmotiv che accompagna i banner di codificazione dell’agire, come: “Il Jihad entra in una nuova fase: purificazione dei credenti, distruzione dei miscredenti” individuati principalmente negli USA, Israele e Lega Araba. Le scene di combattimento dal fronte ora vedono i “fedeli alleati di Allah” combattere “fino all’ultima ora per la gloria, la salvezza e il consolidamento dell’Ummah” contro i militari “russi, alleati di Satana”. I combattenti dell’Islamic State sono uniti, senza “barriere, confini, simboli, nazionalismi o traditori che li dividano, senza accettare nessuno che li governi tranne Allah”. Anche se le nazioni degli infedeli collaborano per sconfiggerli, essi compiono il loro jihad in ogni parte del mondo, senza alcuna distinzione di colore della pelle, etnia o territorio. Le “fiamme di guerra” attraversano ancora una volta il teatro del conflitto – evidenziando la centralità del Sinai, una delle aree più importanti del progetto terroristico di destabilizzazione regionale -, fino a trasformarsi in incandescenti meteoriti che si abbattono sugli USA. “La paura non ferma i combattenti ma li guida” nei raid militari cui partecipano anche adolescenti che inneggiano ad Allah. Quindi, di nuovo sgozzamenti e decapitazioni di militari nemici le cui teste, macabramente riprese in primo piano, rotolano nella fossa. Un soldato viene incatenato ed arso vivo “dal fuoco del jihad, un fuoco che non può essere spento con il fuoco”, citando l’espressione trumpiana. Ancora una volta, vengono raccolte le dichiarazioni dei prigionieri intenti a scavare la loro fossa, per poi essere giustiziati con un colpo alla nuca mentre il sole illumina la bandiera nera che sventola.
Entrambi i video sono stati realizzati da al_Hayat Media Center, il principale produttore dell’Islamic State. Essi rappresentano l’espressione centralizzata più sofisticatamente massiva, post-analogica e gerarchizzata dell’imponente macchina di produzione sviluppata in questi soli tre anni dall’entità terroristica. Prodotti “spettacolari” come questi sono in grado di alimentare hollywoodianamente l’illusione che ci si trovi dinnanzi alla mera propaganda, celando la complessità dell’evoluzione (cyber-)sociale della minaccia jihadista. Essa, infatti, si sostanzia non attraverso la produzione di blockbusters come “Flame of Wars”, di fatto utilizzati prevalentemente come prodotto di entertainment collettivo tra i combattenti, ma per mezzo di una tanto accurata quanto pervasiva coltivazione sadico-violenta del primo immaginario, concretamente globalizzato, dell’epoca digitale. Non ci si può limitare a ricomprendere nel tradizionale concetto di propaganda la dimensione (cyber-)ecosistemica della jihadisfera in grado, tra l’altro, di suggestionare, educare ed ispirare violentemente anche terroristi, tra cui Breivik, Osborne e Paddock, appartenenti ad altri mondi. L’evoluzione dell’Internet Jihadism risulta fortemente contraddistinta negli ultimi anni dalla diffusione della mobile culture e del nomadismo digitale, soprattutto in Occidente. Mentre la propaganda si rivolgeva alle masse, coagulandole nell’unità, la (cyber-)propaganda jihadista è operata per mezzo di una strategia di “globalizzazione individualizzata”, social, esperienziale, mobile, in grado di sedurre i soggetti più vulnerabili, di colonizzare la loro sfera delle percezioni.
La dieta mediale offerta dall’Internet Jihadism risulta fondamentale per favorire la (cyber-)radicalizzazione violenta di soggetti sempre più giovani e vulnerabili, che non si esplicita secondo il semplice indottrinamento dicotomico, ma con la fruizione open e disintermediata che si articola attraverso una “superficiale complessità” che determina due distinte tipologie di (cyber-)radicalizzazione violenta:
La pervasività della jihadisfera in quanto costruttore identitario, trascende l’affiliazione, la militanza, l’appartenenza ai singoli gruppi terroristici, come l’Islamic State, per raggiungere la dimensione (cyber-)socio-culturale e la viralizzazione individualizzata di “Islamic State of Mind”, quale modus vivendi jihadista in grado di ravvivare le braci del “Lone Jihad”, con attacchi low-cost, spontaneistici e destrutturati, soprattutto in Europa. Proprio a causa dell’evoluzione (cyber-)sociale della minaccia terroristica, nonché alla luce della sempre crescente interconnessione mobile, pubblico e privato devono convergere nel cogente sviluppo di nuovi modelli interpretativi, di analisi, prevenzione, contrasto e soprattutto anticipazione del fenomeno.
A cura di: Arije Antinori
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