Illustrazione concettuale della cloud forensics

Cloud forensics: acquisizione delle prove in ambienti multi-tenant e chain of custody nei cloud ibridi

La migrazione massiva verso architetture cloud ha ridefinito completamente i paradigmi dell’informatica forense. Se per decenni la digital forensics si è sviluppata intorno al concetto di acquisizione di dispositivi fisicamente delimitati – hard disk, server on-premise, dispositivi mobili – oggi ci troviamo di fronte a una realtà dove i confini tra evidenze digitali, infrastrutture e giurisdizioni sono diventati labili, quando non del tutto evanescenti.

Il cloud computing, nella sua essenza distribuita e virtualizzata, rappresenta molto più di una semplice evoluzione tecnologica: costituisce una rottura epistemologica rispetto ai fondamenti stessi dell’investigazione digitale. La questione non è più “dove si trova la prova”, ma piuttosto “come possiamo garantire l’integrità e l’ammissibilità di un’evidenza che non esiste in un luogo fisico determinabile e che condivide risorse computazionali con centinaia di altri soggetti giuridici?”.

Multi-tenancy: quando la segregazione logica diventa questione forense

L’architettura multi-tenant – pietra angolare dell’efficienza economica del cloud – rappresenta il primo, fondamentale nodo problematico per l’investigatore digitale. In questi ambienti, molteplici entità giuridicamente distinte condividono non solo l’infrastruttura hardware sottostante, ma spesso anche layer applicativi, storage pool e risorse di rete virtualizzate. La segregazione logica sostituisce quella fisica, affidandosi a meccanismi di isolamento implementati via software: hypervisor, container, policy di accesso, crittografia a livello di tenant.

Dal punto di vista forense, questa condivisione introduce rischi di contaminazione probatoria senza precedenti nel mondo on-premise. L’acquisizione di un’immagine forense tradizionale – il gold standard della disciplina – diventa tecnicamente impossibile o giuridicamente inammissibile. Come si può procedere al sequestro di un intero storage array quando questo contiene simultaneamente dati di decine di organizzazioni, molte delle quali del tutto estranee all’indagine? La risposta ovvia – acquisire solo i dati del tenant sotto investigazione – apre però ulteriori interrogativi sulla completezza dell’evidenza e sulla possibilità di alterazioni.

Il rischio di cross-contamination non è meramente teorico. In ambienti virtualizzati, fenomeni di data bleeding attraverso cache condivise, side-channel attacks, o semplicemente errori di configurazione nelle politiche di isolamento, possono portare a fughe di dati tra tenant. Per l’investigatore, verificare l’assenza di tali contaminazioni richiede una comprensione profonda dell’architettura del cloud service provider, informazioni che raramente sono accessibili per ragioni di sicurezza e segreto industriale.

Come evidenziato nella letteratura specialistica su cloud computing forensics, le criticità dovute alla volatilità delle risorse virtualizzate e all’inaccessibilità delle risorse fisiche rappresentano ostacoli significativi per qualsiasi indagine digitale.

La catena di custodia nel paradigma ibrido: continuità o fiction giuridica?

Se il multi-tenant complica l’acquisizione, gli ambienti cloud ibridi mettono in crisi il concetto stesso di chain of custody. La catena di custodia – principio cardine dell’ammissibilità probatoria – presuppone la capacità di documentare ogni passaggio della prova, dalla sua acquisizione fino alla sua presentazione in sede giudiziaria, garantendo che non vi siano state alterazioni, sostituzioni o manipolazioni.

In un ambiente ibrido, dove i dati migrano dinamicamente tra infrastrutture on-premise, cloud privati e cloud pubblici, spesso attraversando molteplici giurisdizioni nel corso di normali operazioni business, questa documentazione diventa straordinariamente complessa. Un file oggetto di indagine potrebbe essere stato creato in un data center aziendale in Italia, replicato automaticamente in un cloud storage AWS situato in Irlanda per ragioni di business continuity, processato da un servizio di analytics ospitato su Google Cloud in Belgio, e infine archiviato in forma compressa su Azure negli Stati Uniti, il tutto nell’arco di poche ore e senza alcun intervento umano.

Ciascun “salto” in questa catena rappresenta un potenziale punto di rottura forense. Come garantire che i timestamp siano affidabili quando attraversano time zone e sistemi con clock potenzialmente non sincronizzati? Come documentare le trasformazioni che il dato subisce – compressione, crittografia, de-duplicazione – mantenendo la possibilità di risalire alla forma originale? Come tracciare chi ha avuto accesso al dato quando i log sono anch’essi distribuiti tra sistemi diversi, gestiti da fornitori diversi, soggetti a politiche di retention diverse?

Il quadro normativo italiano: tra evoluzione e lacune

La legislazione italiana, con il Codice di procedura penale e le sue norme sull’acquisizione di prove informatiche, è stata concepita in un’era pre-cloud. L’articolo 247, comma 1-bis del c.p.p. sulla perquisizione di sistemi informatici, introdotto con la Legge 48/2008 di ratifica della Convenzione di Budapest, stabilisce che quando vi è fondato motivo di ritenere che dati, informazioni o programmi informatici pertinenti al reato si trovino in un sistema informatico o telematico, “ne è disposta la perquisizione, adottando misure tecniche dirette ad assicurare la conservazione dei dati originali e ad impedirne l’alterazione”.

Analogamente, l’articolo 244, comma 2 del c.p.p. sulle ispezioni prevede la possibilità di disporre operazioni tecniche “anche in relazione a sistemi informatici o telematici, adottando misure tecniche dirette ad assicurare la conservazione dei dati originali e la loro inalterabilità”.

Tuttavia, queste disposizioni non affrontano esplicitamente le peculiarità degli ambienti distribuiti e multi-tenant. L’articolo 254-bis del c.p.p. sul sequestro di dati informatici presso fornitori di servizi, pur consentendo l’acquisizione mediante copia su adeguato supporto, non disciplina specificamente le situazioni in cui i dati siano replicati in più giurisdizioni o condividano risorse con altri soggetti.

Il recente disegno di legge che ha introdotto l’articolo 254-ter del c.p.p. rappresenta un importante passo avanti nella direzione di una maggiore proceduralizzazione del sequestro di dispositivi elettronici, ma permangono zone grigie interpretative dove prassi operative e principi giurisprudenziali devono essere costantemente adattati a una realtà tecnologica in rapida evoluzione.

Metodologie forensi adattive: tra compromessi tecnici e garanzie legali

Di fronte a queste complessità, la comunità forense ha sviluppato approcci metodologici alternativi, che rappresentano però altrettanti compromessi rispetto agli standard tradizionali. L’acquisizione “live” – la raccolta di dati da sistemi in funzione – diventa spesso l’unica opzione praticabile in ambienti cloud dove il concetto di “spegnimento” è privo di significato o comporterebbe la distruzione di evidenze volatili.

Le snapshot di macchine virtuali offrono un surrogato dell’immagine forense completa, ma sollevano interrogativi sulla loro affidabilità. Una snapshot è realmente una rappresentazione fedele dello stato del sistema al momento dell’acquisizione, o può essere influenzata da operazioni di copy-on-write, cache non ancora sincronizzate, o stato di memoria non persistito? La risposta dipende dall’implementazione specifica dell’hypervisor e dalle configurazioni del cloud provider, creando una dipendenza dalla “black box” del fornitore che è antitetica ai principi di verificabilità e riproducibilità della scienza forense.

L’utilizzo di API proprietarie per l’estrazione di dati introduce un’ulteriore mediazione tra investigatore e evidenza. Quando si richiede a un cloud provider l’esportazione di determinati dati attraverso le sue API, si sta implicitamente delegando a tale provider il processo di selezione e formattazione dell’evidenza. Come garantire che l’API non stia omettendo metadati rilevanti? Come verificare che il processo di esportazione non abbia alterato timestamp o altre proprietà forensemente significative?

Gli strumenti specializzati per la cloud forensics come Magnet AXIOM Cloud, Cellebrite UFED Cloud Analyzer, o i Google Cloud Forensics Utils, pur rappresentando un progresso significativo, rimangono dipendenti dalle capacità e dalle limitazioni delle piattaforme cloud sottostanti.

La dimensione giurisdizionale: il cloud come catalizzatore di conflitti normativi

La natura intrinsecamente transnazionale del cloud amplifica problematiche giurisdizionali che, pur non essendo nuove nel cybercrime, assumono qui una complessità senza precedenti. Il Regolamento (UE) 2023/1543 del 12 luglio 2023, relativo agli ordini europei di produzione e conservazione di prove elettroniche nei procedimenti penali, entrato in vigore il 18 agosto 2023 e applicabile dal 18 agosto 2026, tenta di fornire un framework per l’accesso transfrontaliero alle prove elettroniche.

Questo strumento normativo, accompagnato dalla Direttiva (UE) 2023/1544 sulla designazione di rappresentanti legali dei prestatori di servizi, rappresenta un significativo passo avanti. Il Regolamento consente alle autorità giudiziarie di emettere ordini europei di produzione direttamente ai prestatori di servizi di un altro Stato membro, con tempi di risposta di 10 giorni (8 ore in caso di emergenza), bypassando le tradizionali procedure di mutua assistenza giudiziaria che richiedevano mesi.

Tuttavia, la sua applicazione pratica in scenari cloud ibridi solleva più domande di quante ne risolva. Quando un’autorità giudiziaria italiana emette un provvedimento di acquisizione per dati ospitati in un cloud ibrido, quale entità è legittimata a dare esecuzione? Il cloud provider, che potrebbe avere sede legale in un altro Stato membro? Il cliente finale, che però potrebbe non avere accesso tecnico ai dati in questione? E se i dati sono replicati in giurisdizioni multiple, incluse giurisdizioni extra-UE, quale regime normativo prevale per quanto riguarda la protezione dei dati personali e i diritti dei soggetti coinvolti?

Il conflitto con il CLOUD Act statunitense

Il conflitto potenziale con normative extra-europee – in particolare il CLOUD Act (Clarifying Lawful Overseas Use of Data Act) statunitense, approvato il 23 marzo 2018 – introduce ulteriori livelli di complessità. Il CLOUD Act autorizza le autorità federali statunitensi a obbligare i fornitori di servizi soggetti alla giurisdizione USA a produrre dati richiesti, indipendentemente dalla loro ubicazione fisica.

Un cloud provider americano operante in Europa potrebbe trovarsi simultaneamente soggetto a un ordine di produzione da parte delle autorità italiane e a un ordine concorrente da parte delle autorità statunitensi, configurando una situazione di impossibilità giuridica che paralizza l’investigazione. Il Garante europeo della protezione dei dati (EDPB) ha considerato il CLOUD Act in conflitto con il GDPR, posizione confermata dalla Corte di giustizia dell’Unione europea nella sentenza Schrems II del 2020.

Verso una forensics “cloud-native”: ripensare i fondamenti

La constatazione che emerge da questa analisi è che gli approcci tradizionali della digital forensics, basati su acquisizione completa, verificabilità attraverso hash crittografici e catene di custodia lineari, sono sempre più inadeguati per gli ambienti cloud. Non si tratta di meri limiti tecnici superabili con strumenti migliori, ma di un’incompatibilità concettuale tra il modello forense classico e la natura stessa del cloud computing.

Forse è necessario un cambio di paradigma. Invece di tentare di adattare metodologie nate per i sistemi stand-alone al cloud, dovremmo sviluppare una forensics genuinamente “cloud-native”, che accetti la volatilità, la distribuzione e la multi-tenancy non come ostacoli ma come caratteristiche intrinseche dell’ambiente investigativo.

Questo potrebbe significare:

  • Maggiore enfasi sulla registrazione continua e tamper-proof degli eventi (immutable logging)
  • Utilizzo di tecnologie blockchain per certificare chain of custody distribuite
  • Implementazione di meccanismi di “forensic readiness” progettati dal cloud provider stesso come parte dell’architettura di servizio
  • Adozione di standard internazionali per la certificazione forensica in ambienti cloud (ISO/IEC 27050, ISO/IEC 27037)

Sul fronte normativo, è necessaria una riflessione più profonda su cosa costituisca una “prova adeguata” in un contesto cloud. Il principio di ammissibilità non può più essere binario – conforme agli standard tradizionali quindi ammissibile, non conforme quindi inammissibile – ma deve articolarsi in una valutazione più sfumata del grado di affidabilità, contestualizzata rispetto alle possibilità tecniche effettive dell’ambiente investigato.

Best practice emergenti e raccomandazioni operative

Per affrontare le sfide della cloud forensics in ambienti multi-tenant, si stanno consolidando alcune best practice:

1. Forensic readiness proattiva

Le organizzazioni dovrebbero implementare misure preventive che facilitino future indagini:

  • Logging centralizzato e immutabile di tutte le operazioni
  • Configurazione di retention policy adeguate per i log
  • Definizione chiara dei ruoli e responsabilità nella gestione delle evidenze
  • Accordi contrattuali con i cloud provider che includano clausole di cooperazione forense
2. Documentazione rigorosa

Ogni fase dell’acquisizione deve essere documentata meticolosamente:

  • Timestamp sincronizzati con fonti di tempo certificate
  • Metadata completi su ogni artefatto acquisito
  • Registrazione di tutte le trasformazioni applicate ai dati
  • Tracciabilità completa della catena di custodia anche attraverso ambienti distribuiti
3. Competenze specialistiche

Gli investigatori devono possedere:

  • Conoscenza approfondita delle architetture cloud (IaaS, PaaS, SaaS)
  • Familiarità con i principali cloud provider e le loro API
  • Comprensione delle tecnologie di virtualizzazione e containerizzazione
  • Competenze in materia di diritto internazionale e giurisdizioni concorrenti
4. Collaborazione con i provider

È essenziale stabilire:

  • Canali di comunicazione diretti per situazioni di emergenza
  • Procedure standardizzate per le richieste di evidenze
  • Accordi di livello di servizio (SLA) che includano tempi di risposta per le richieste forensi
  • Formazione congiunta su procedure e strumenti

Conclusioni: l’urgenza di un dialogo interdisciplinare

La cloud forensics non è una sfida meramente tecnica, né esclusivamente giuridica. È piuttosto il punto di convergenza dove tecnologia, diritto procedurale, diritti fondamentali e interessi economici si intrecciano in modi che sfidano le categorie tradizionali di ciascuna di queste discipline.

L’investigatore digitale del futuro dovrà possedere competenze che spaziano dall’architettura dei sistemi distribuiti al diritto internazionale, dalla crittografia alla procedura penale comparata. Ma ancor più importante, dovrà essere parte di un ecosistema collaborativo che includa cloud provider, legislatori, autorità di regolamentazione e comunità accademica, tutti impegnati a riscrivere le regole del gioco investigativo per un mondo dove “il luogo del delitto” è ovunque e in nessun luogo.

La posta in gioco non è accademica. L’incapacità di sviluppare metodologie forensi efficaci per gli ambienti cloud rischia di creare zone franche per la criminalità digitale, spazi dove l’illecito può prosperare non per mancanza di prove, ma per impossibilità di acquisirle in forme giuridicamente utilizzabili. Al contempo, risposte affrettate o tecnicamente ignoranti rischiano di compromettere diritti fondamentali – dalla privacy alla protezione dei dati personali – di soggetti del tutto estranei alle indagini.

Trovare l’equilibrio tra efficacia investigativa e tutela dei diritti in ambienti cloud ibridi e multi-tenant è forse la sfida più complessa che la digital forensics abbia mai affrontato. È una sfida che non possiamo permetterci di perdere, perché da essa dipende la credibilità stessa del sistema giudiziario nell’era digitale.

Fonti:

Codice di procedura penale italiano, artt. 244, 247, 254-bis, 254-ter

Legge 48/2008 – Ratifica Convenzione di Budapest

Regolamento (UE) 2023/1543

Direttiva (UE) 2023/1544

CLOUD Act (USA)

Regolamento (UE) 2016/679 (GDPR)

ISO/IEC 27037:2012

ISO/IEC 27050:2016 – Electronic discovery

Digital Forensics: come si evolve la legge contro i reati informatici – ICT Security Magazine

Cloud Computing Forensics: Peculiarità e Indicazioni Metodologiche – ICT Security Magazine

Cloud Computing Forensics, elementi di data security e protection – ICT Security Magazine

Regolamento europeo sugli ordini di e-evidence – EUR-Lex

Articoli del Codice di procedura penale – Filodiritto

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