Sicurezza dei semiconduttori: come la geopolitica dei chip impatta il rischio cyber
I semiconduttori sono l’elemento fondamentale di ogni tecnologia moderna, dai droni militari agli smartphone. Ma proprio la complessità dei chip e la globalizzazione della loro filiera creano nuovi rischi per la sicurezza informatica.
Ogni fase di progettazione e produzione coinvolge centinaia di aziende e decine di paesi: secondo uno studio CSIS, i componenti necessari per un singolo chip devono attraversare oltre 70 confini internazionali. Con così tanti “passaggi”, è più facile inserire vulnerabilità hardware non rilevate, come piccole modifiche malevole o circuiti backdoor nei chip stessi. Un hardware Trojan (o “cavallo di Troia” hardware) può essere una semplice alterazione, sfuggente ai test standard, capace di disabilitare funzioni di sicurezza o intercettare dati sensibili.
Ad esempio, Bloomberg Businessweek rivelò nel 2018 che su schede madri di server, destinate persino alla difesa USA, fu trovato un componente aggiuntivo con funzioni sospette. Sebbene aziende come Amazon e Apple abbiano smentito l’episodio, la notizia fece capire quanto sia difficile verificare l’integrità fisica dei dispositivi.
Suscitano preoccupazione anche le vulnerabilità intrinseche dei processori. I bug hardware come Spectre e Meltdown (2018) hanno mostrato che scelte architetturali apparentemente innocue possono trasformarsi in canali per rubare dati protetti.
Questi difetti sfruttano meccanismi di previsione e cache per accedere a informazioni riservate, rendendo il software “perfetto” inutile di fronte a un chip insicuro. Allo stesso modo, attacchi come Rowhammer – che sfrutta proprietà fisiche della RAM per alterare bit di memoria – dimostrano che il semplice codice software può manipolare l’hardware. In laboratorio, i ricercatori hanno creato hardware Trojan che si attivano solo al verificarsi di condizioni analogiche precise, eludendo ogni verifica convenzionale. In breve, anche se il software e la rete sono protetti, il livello fisico di un chip rappresenta un’ultima linea di difesa spesso trascurata. In questa logica, l’agenzia USA IARPA ha finanziato progetti per “chip affidabili” in grado di rilevare o neutralizzare manipolazioni hardware.
Catena di fornitura globale: opportunità per sabotaggi e backdoor
La filiera dei semiconduttori è tra le più globalizzate del pianeta. Dalla progettazione (USA, Europa, Giappone) alla realizzazione dei wafer (Taiwan, Corea del Sud) fino ad assemblaggio e test (soprattutto Cina), un singolo chip percorre una catena complessa. Un grafico CSIS evidenzia la frammentazione geografica della produzione globale di chip avanzati, sottolineando che nessuna nazione può oggi “farcela da sola”.
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Questa complessità offre ampi spazi per sabotaggi o intrusioni. In particolare, le fasi di assemblaggio e test (outsourced OSAT) sono concentrate in Asia: le tre maggiori aziende cinesi di OSAT controllano circa il 35% del mercato globale.
È proprio in queste fasi finali che possono inserirsi hardware Trojan difficili da rilevare: basti pensare a un minuscolo circuito di spy inserito durante il “back-end” che aggiunge backdoor o disabilita modululi di sicurezza. Inoltre, la proliferazione di componenti contraffatti o rigenerati aggiunge altri vettori di rischio. Secondo IEEE Spectrum, nell’arco di pochi anni sono esplosi i casi di chip contraffatti, pericolosi perché possono contenere malware fisici. Individuare un’impianto malevolo in un wafer o in un microchip è estremamente difficile: spesso servirebbero analisi da microspettrometro o raggi X.
A complicare il quadro, molte imprese occidentali affidano tuttora fasi sensibili all’industria cinese. Nonostante gli avvisi del Dipartimento della Difesa USA, non esistono ancora controlli esaustivi per evitare l’acquisto di hardware commerciali a rischio compromissione.
Il Dipartimento di Giustizia USA ha addirittura iniziato indagini anti-frode mirate a reati informatici esotici come l’inserimento di hardware Trojan. Recentemente, un caso emblematico: i server di Amazon e Apple (realizzati da Supermicro in Cina) sembravano contenere un chip extra inserito in fabbrica. Sebbene le aziende abbiano negato e il caso non sia mai stato confermato, l’episodio ha reso concreto il timore di “virus fisici”. In pratica, ogni componente della catena – dalla fonderia agli integratori – diventa un potenziale vettore di attacco. Per questo si suggerisce di controllare l’intera filiera, idealmente limitando il numero di imprese autorizzate a produrre chip critici.
Implicazioni militari e strategiche
Il controllo dei chip non è solo un tema economico, ma è strettamente legato alla sicurezza nazionale. Secondo CSIS, tutti i principali sistemi difensivi statunitensi – satelliti, aerei stealth, missili da crociera e altro – si basano sul “cuore intelligente” dei semiconduttori. L’ex Presidente Reagan già negli anni ’80 indicava nei chip la chiave per creare “sistemi intelligenti” capaci di compensare una inferiorità numerica rispetto all’URSS.
Oggi lo scontro è con la Cina e, benché diversa, la logica è la stessa: perdere leadership nella microelettronica mette a rischio capacità di difesa e alleanze. Un report della RAND (2023) ribadisce che «l’erosione delle capacità USA nei microchip è una minaccia diretta alla difesa». Viceversa, chi mantiene l’accesso ai chip più avanzati ottiene un vantaggio strategico: se gli Stati Uniti possono compensare uno shock a Taiwan allargandone la produzione altrove, da deterrente a favore degli alleati, lo stesso non è vero per la Cina.
La dimensione militare non è solo difensiva: i semiconduttori più potenti sono fondamentali anche per l’intelligence e le nuove guerre ibridi. Lo sviluppo di armi autonome guidate dall’IA, radar a blocchi, cyber-armi compatte e reti di sorveglianza – tutto dipende da chip avanzati.
Per questo motivo l’amministrazione Biden ha definito le recenti restrizioni statunitensi all’export di attrezzature per chip come «i controlli più severi mai emanati per degradare la capacità della Cina di produrre chip avanzati utilizzabili nella propria modernizzazione militare». Dietro queste misure c’è la convinzione che Pechino possa usare chip di ultima generazione per creare “armi a intelligenza artificiale” in grado di minacciare USA e alleati. Allo stesso tempo, Washington investe in patria: il CHIPS Act (2022) destina decine di miliardi alla produzione locale, prevedendo obblighi per chi riceve fondi federali (ad esempio non esportare in Cina tecnologie troppo avanzate). Insomma, le politiche tecnologiche odierne sono in gran parte dettate da esigenze di difesa e controllo geopolitico.
Tensioni geopolitiche, Taiwan e sicurezza informatica
La dipendenza mondiale da Taiwan per i chip di fascia alta rende l’isola un nodo critico nelle tensioni USA-Cina. Oggi oltre il 90% dei microchip avanzati è prodotto in Taiwan. Ciò significa che uno scontro bellico o un brutale attacco informatico all’isola potrebbe bloccare la produzione globale. Un articolo recente ricorda che Taiwan subisce mediamente decine di migliaia di attacchi cyber al giorno, con l’obiettivo di interrompere linee di produzione e infrastrutture critiche. Questo scenario ha ripercussioni mondiali: come sottolinea un’analisi, «la vera minaccia globale derivante dalla situazione di Taiwan è l’interruzione delle catene di fornitura di chip», che possono far mancare tutto, dagli smartphone alle attrezzature mediche.
Alla crisi taiwanese si sommano le politiche di decoupling tra superpotenze. L’amministrazione americana da anni applica sanzioni ed esport controls per frenare la crescita tecnologica cinese.
A metà 2022 il Dipartimento del Commercio USA annunciò che si sta «concentrando nell’impedire gli sforzi della Cina di produrre semiconduttori avanzati, per affrontare i rischi significativi per la sicurezza nazionale». Ciò si traduce in divieti di vendita di macchinari o software occidentali alle aziende cinesi più ambiziose (SMIC, YMTC, ecc.).
Queste contromisure alimentano la rivalità: Pechino denuncia che i controlli dell’export sono armi economiche usate dagli USA per mantenere il vantaggio tecnologico. In risposta, la Cina sta cercando l’autosufficienza (massicci investimenti pubblici in NOC, semiconduttori nazionali, EDA) e imponendo leggi come il National Intelligence Law che obbligano le aziende cinesi a cooperare con le spie di stato. Così, ogni chip “Made in China” è visto con sospetto all’estero, proprio perché qualsiasi collegamento a Pechino può implicare obblighi di collaborazione con i servizi segreti locali.
Anche l’Europa non è immune alle tensioni: pur non avendo un settore locale molto forte nella produzione, partecipa alle sanzioni USA e avvia progetti (nel quadro EIP o I3S) per diversificare i fornitori. D’altronde, un’eventuale escalation USA-Cina potrebbe generare una scarsità mondiale di chip simile a quella acuta del 2020-22, con impatto su automobili, elettronica di consumo, sanità e forze armate. Gli analisti consigliano ai governi di cooperare per creare scorte strategiche di componenti e definire regole comuni sulla sicurezza della filiera.
Attacchi reali e casi recenti nella sicurezza dei semiconduttori
Negli ultimi anni si sono già verificati casi concreti che dimostrano i rischi illustrati. Il più noto è probabilmente il presunto inserimento di un chip maligno in server destinati a clienti statunitensi e governo, documentato da Bloomberg nel 2018. In quel caso un inserto hardware nascosto avrebbe consentito a un ipotetico aggressore di controllare a distanza i server compromessi.
Sempre nel 2018 un gruppo ransomware (Lapsus$) colpì Nvidia rubando dati proprietari (tra cui codici sorgente per GPU), dimostrando che anche i giganti dei chip non sono immuni a brecce informatiche. Più recentemente (marzo 2022) lo stesso gruppo Lapsus$ rivendicò attacchi a Samsung e NVIDIA, sottraendo codice critico senza però impattare direttamente i chip prodotti. Sul fronte diplomatico, basti ricordare che a fine 2024 Washington ha vietato ai cinesi di acquistare memoria grafica avanzata (HBM) e strumenti di litografia di fascia alta, scatenando proteste di Pechino che ha definito tali misure una violazione delle regole di mercato.
Un episodio recente mostra come i tentacoli della cyber-criminalità possano raggiungere fin dentro le catene dei chip: nel luglio 2023 il famigerato gruppo LockBit ha affermato di avere hackerato la TSMC (la più grande fonderia del mondo), chiedendo 70 milioni di dollari di riscatto. TSMC ha respinto l’accusa, precisando che l’intrusione era avvenuta presso uno dei suoi fornitori di hardware.
Anche se la vicenda è stata smentita, riflette la vulnerabilità di qualsiasi attore della filiera ai tentativi di estorsione digitale. Infine, casi noti di supply chain attack come lo scandalo SolarWinds (2020, software) e le continue intrusioni russe/cinesi in infrastrutture critiche testimoniano che ogni anello debole può diventare un grimaldello per sfondare sistemi protetti. Nel complesso, questi esempi sottolineano che la sicurezza dei semiconduttori non è un problema astratto: come ammesso dagli stessi esperti, un singolo chip corrotto potrebbe “mandare fuori uso una difesa antimissile, esporre dati personali, o persino interrompere la rete elettrica”.
Fonti:
CSIS (2023), “Mapping the Semiconductor Supply Chain: The Critical Role of the Indo-Pacific”.
Reuters (2022), “U.S. considers crackdown on memory chip makers in China”.
IEEE Spectrum (2015), “Stopping Hardware Trojans in Their Tracks”.
Semiconductor Engineering (Agosto 2022), “Chip Backdoors: Assessing the Threat”.
Hackaday (Ottobre 2018), “Malicious Component Found On Server Motherboards…”.
