Futuristic digital shield glowing in blue tones over a map of Israel, symbolizing national cybersecurity defense. Background with code streams, data grids, and a Star of David integrated subtly into the design — modern, powerful, high-tech atmosphere

Cybersecurity israeliana: l’architettura della supremazia digitale occidentale (e le sue ombre)

La cybersecurity israeliana rappresenta oggi l’architettura fondamentale su cui l’Occidente costruisce la propria difesa digitale. Con un fatturato di 14,7 miliardi di dollari in export militare e investimenti per quasi 4 miliardi nel settore cyber, Israele ha trasformato la necessità di sopravvivenza in dominio tecnologico globale. Dall’Unità 8200 alle startup unicorno, dalla base segreta nel Negev ai contratti miliardari con Germania e Regno Unito, la “Startup Nation” detiene oggi 11 delle 21 aziende cyber unicorno mondiali.

Ma dietro l’innovazione si nasconde un’ombra: sistemi AI che automatizzano la morte, sorveglianza di massa sui territori palestinesi, e spyware come Pegasus nelle mani di regimi autoritari. Mentre l’Europa diventa sempre più dipendente da queste tecnologie, una domanda resta inevasa: stiamo proteggendo la democrazia o costruendo l’infrastruttura della nostra futura sorveglianza totale?

Come la “Startup Nation” ha trasformato la sopravvivenza in dominio globale della cybersecurity

Nel cuore del deserto del Negev, a novanta minuti da Tel Aviv, sorge quello che molti considerano il futuro della guerra digitale. È qui, in una base segreta che ospita 14.000 specialisti, che Israele sta scrivendo il prossimo capitolo della sicurezza informatica globale.

Non è fantascienza: è la realtà di un paese che ha trasformato ogni minaccia in un’opportunità di innovazione, costruendo un impero tecnologico da miliardi di dollari.

I numeri parlano chiaro: nel 2024 Israele ha toccato il record storico di 14,7 miliardi di dollari in export militare, mentre il settore della cybersecurity ha attratto investimenti per quasi 4 miliardi di dollari – una crescita del 56% in un solo anno. Ma dietro questi dati si nasconde una storia di innovazione e strategia, nonché una visione del futuro che sta cambiando il modo in cui il mondo occidentale si difende dalle minacce digitali.

Dal ferro al silicio: l’evoluzione dell’Iron Dome

Tutti conoscono l’Iron Dome, il sistema missilistico che intercetta razzi nemici con un’efficacia del 90%. Ma pochi sanno che Israele sta sviluppando la sua versione digitale: il “Cyber Dome”, un progetto ambizioso annunciato nel 2022 che promette di fare nel cyberspazio quello che l’Iron Dome ha fatto nei cieli israeliani.

«Chiamiamo questo progetto la “salsa segreta”», spiega Gaby Portnoy, direttore generale dell’Israel National Cyber Directorate.

«Mentre l’orchestra – gli sforzi combinati di diversi dipartimenti – lavora all’esterno, noi facciamo il lavoro interno. Lavoriamo tutti a stretto contatto, insieme».

Il progetto, ancora in fase di sviluppo, coinvolge veterani dell’Unità 8200 (l’equivalente israeliano della NSA), operatori del Mossad e Shin Bet, esperti del ministero della Difesa. L’obiettivo è creare un sistema di intelligenza artificiale capace di identificare e neutralizzare attacchi informatici prima ancora che si manifestino.

L’Unità 8200: la fabbrica dei geni digitali

Se dovessimo identificare il cuore pulsante della cyber-potenza israeliana, questo sarebbe sicuramente l’Unità 8200. Con i suoi 5.000-10.000 specialisti (le cifre esatte sono classificate), rappresenta la più grande unità delle forze armate israeliane e il vivaio da cui escono i futuri CEO delle più importanti aziende tech del mondo.

Tipicamente, infatti, gli ufficiali che vanno in pensione dalle forze di difesa si uniscono all’industria cyber privata.

L’unità ha sviluppato sistemi come Gospel (Habsora) e Lavender, database di intelligenza artificiale capaci di analizzare comunicazioni, immagini e informazioni da internet e reti mobili per individuare gli obiettivi da colpire: una scelta che ha attirato sul governo aspre critiche da parte degli osservatori internazionali – e non solo.

Già nel 2014, infatti, 43 riservisti e veterani dell’Unità 8200 – inclusi degli ufficiali – hanno pubblicato una lettera aperta rifiutandosi di continuare a servire, denunciando che “l’intelligence raccolta dall’unità era parte integrante dell’occupazione militare israeliana” e veniva usata per “danneggiare persone innocenti”.

L’Intelligenza Artificiale della morte: Gospel, Lavender e il prezzo dell’automazione

Se l’Iron Dome rappresenta il volto “presentabile” della tecnologia israeliana, i sistemi AI utilizzati a Gaza ne rivelano il lato più oscuro. Human Rights Watch ha documentato come l’esercito israeliano utilizzi strumenti digitali – tra cui Gospel per generare obiettivi strutturali, Lavender per identificare presunti militanti e “Where’s Daddy?” per tracciare i loro movimenti – che “possono aumentare il rischio di danni ai civili”.

Secondo fonti militari israeliane, Gospel può generare 100 obiettivi di bombardamento al giorno, rispetto ai 50-100 l’anno che producevano gli analisti umani. Ma questa efficienza ha un costo devastante: esperti ONU hanno denunciato come l’uso presunto di AI abbia contribuito a un bilancio senza precedenti, con oltre 33.000 persone uccise nei primi sei mesi del conflitto e il 60-70% di abitazioni a Gaza distrutte o danneggiate.

Secondo quanto ricostruito da diverse inchieste giornalistiche, agli ufficiali è stato detto come sia accettabile uccidere 15-20 non combattenti per eliminare un singolo soldato di Hamas, o addirittura fino a 100 civili per colpire un comandante nemico. Ancora più inquietante è che il sistema Lavender avrebbe un margine di errore del 10% nell’identificazione dei target; e gli analisti potrebbero dedicare appena 20 secondi alla verifica di ciascun obiettivo.

Il Comitato Speciale ONU ha concluso che “l’uso militare israeliano di sistemi di targeting assistiti da AI, con supervisione umana minima, combinato con bombe pesanti, sottolinea il disprezzo di Israele per il suo obbligo di distinguere tra civili e combattenti”.

La questione, quindi, non è più se l’AI possa essere usata in guerra; ma se il suo utilizzo rispetti il diritto internazionale umanitario. E le evidenze suggeriscono fortemente di no.

La corsa all’oro digitale: CyberArk e l’acquisizione del secolo

Se dovessimo scegliere un momento simbolico del dominio israeliano nella cybersecurity sarebbe il luglio del 2025, quando Palo Alto Networks ha annunciato di aver acquisito CyberArk per 25 miliardi di dollari; la seconda più grande acquisizione tecnologica americana dell’anno, dopo Google-Wiz.

CyberArk, specializzata nella gestione degli accessi privilegiati, rappresenta l’eccellenza israeliana nel settore. «Siamo partiti oltre vent’anni fa con l’obiettivo di proteggere gli asset più critici del mondo», racconta Udi Mokady, chairman esecutivo e co-fondatore.

«Unire le forze con Palo Alto Networks è un nuovo capitolo potente, costruito su valori condivisi e un profondo impegno nel risolvere le sfide identitarie più difficili».

L’acquisizione non è solo una questione economica: rappresenta il riconoscimento che nella nuova era dell’intelligenza artificiale, in cui controllare chi ha accesso a cosa è diventato il Santo Graal della sicurezza informatica.

L’Europa si arma: quando la Germania compra israeliano

La guerra in Ucraina ha cambiato tutto. Improvvisamente, l’Europa ha realizzato di aver bisogno di sistemi di difesa all’altezza delle nuove minacce. E a chi si è rivolta? A Israele.

Il contratto da 3,5 miliardi di dollari per il sistema Arrow-3 firmato dalla Germania nel 2023 rappresenta la più grande vendita di armi nella storia israeliana. «È un momento emozionante, essere qui come figlio e nipote di sopravvissuti all’Olocausto, su suolo tedesco», ha dichiarato il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant durante la cerimonia di firma.

Ma Arrow-3 è solo l’inizio. L’Europa rappresenta ora il 54% di tutti gli export militari israeliani, con contratti che spaziano dalla Romania (2,3 miliardi per sistemi Spyder) al Regno Unito (con una partnership cyber da 20 milioni di sterline). È una rivoluzione geopolitica, che vede l’Europa abbracciare sempre di più il modello di difesa israeliano.

La sfida russo-cinese: la geopolitica incontra la tecnologia

In questo nuovo mondo digitale la competizione non è solo commerciale: è strategica.
Da una parte ci sono le aziende russe come Kaspersky, che processa 467.000 file malevoli al giorno ma è stata bandita dai mercati NATO nel 2024; dall’altra giganti cinesi come 360 Security, con 500 milioni di utenti ma limitata ai mercati non occidentali.

La differenza fondamentale è che le aziende israeliane hanno accesso privilegiato ai mercati occidentali e NATO, con un vantaggio competitivo enorme, che va ben oltre la pura tecnologia.

Il risultato è evidente: pur essendo tecnologicamente avanzati, i sistemi russi e cinesi sono geograficamente e politicamente limitati. Le tecnologie israeliane, al contrario, diventano lo standard de facto dell’Occidente.

Il boom degli investimenti: il denaro segue l’innovazione

Per la cybersecurity israeliana, il 2024 è stato un anno d’oro: gli investimenti da 3,8 miliardi di dollari rappresentano un aumento del 56% rispetto all’anno precedente, con il settore che attrae il 36% di tutti gli investimenti tecnologici nazionali, nonostante rappresenti solo il 7% delle aziende.

«Quello che stiamo vedendo non è solo un rimbalzo, è una validazione di come il nostro ecosistema si è evoluto» spiega Or Salom, analista di YL Ventures.

«I founder israeliani sono sempre stati potenze tecniche, ma ora combinano queste capacità con l’acume negli affari».

I numeri sono eloquenti: delle 21 startup cyber “unicorno” globali, 11 sono israeliane. Team8 ha raccolto 500 milioni di dollari nel marzo 2024, mentre Cyberstarts ha lanciato un Employee Liquidity Fund da 300 milioni per trattenere i talenti migliori.

Cybersecurity israeliana, il futuro è quantistico

Mentre il mondo si prepara all’era del quantum computing, Israele sembra essere già un passo avanti. Il paese sta guidando la transizione verso la crittografia post-quantum, con scadenze governative a fine 2025 per completare i threat assessment ministeriali.

«Non si tratta solo di essere pronti per la minaccia quantistica», spiega un ricercatore dell’Israel Innovation Authority, «ma di definire gli standard che il resto del mondo seguirà».

Nel frattempo il paese ha completato (nel settembre 2025) il sistema Iron Beam, che utilizza laser ad alta energia per intercettare minacce aeree a costo quasi zero per colpo.

Quando la guerra diventa digitale: i test sul campo

Maggio 2021, operazione “Guardian of the Walls”. Per undici giorni, Hamas lancia oltre 4.360 razzi verso Israele mentre porta avanti una campagna cyber coordinata. È il primo vero test della resilienza digitale israeliana in tempo di guerra.

I risultati sono impressionanti: l’Iron Dome intercetta il 90% dei razzi, mentre i sistemi cyber respingono attacchi DDoS da un milione di richieste al secondo mantenendo un uptime del 99,9% per le infrastrutture critiche. Durante il conflitto Israele colpisce anche edifici utilizzati da Hamas per operazioni cyber, dimostrando l’integrazione tra capacità cinetiche e digitali.

Ma, anche se l’Iron Dome è spesso presentato come invincibile, la realtà è più complessa. Durante l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, il sistema si è rivelato vulnerabile alla saturazione: con soli 600-800 intercettori disponibili contro diverse migliaia di missili, anche un’efficacia teorica del 100% non avrebbe impedito che molti razzi raggiungessero il bersaglio.

Ogni missile intercettore Tamir costa tra 40.000 e 100.000 dollari, mentre i razzi che deve abbattere costano poche centinaia di dollari. Questo squilibrio economico rappresenta un esempio lampante di asimmetria militare: un approccio low-cost è riuscito a sconfiggere un sistema high-tech molto più costoso.

Sorveglianza totale: il “laboratorio palestinese”

Per comprendere il futuro della sorveglianza di massa, è necessario guardare ai territori palestinesi. Un rapporto di 7amleh del dicembre 2024 ha rivelato che le politiche israeliane di sorveglianza digitale hanno raggiunto livelli senza precedenti dopo il 7 ottobre 2023, includendo arresti di massa basati su attività digitali, licenziamenti arbitrari e un maggiore affidamento su tecnologie avanzate come sistemi di riconoscimento facciale, droni e spyware.

Il New York Times ha documentato come l’esercito israeliano utilizzi un sistema espansivo di riconoscimento facciale a Gaza per condurre sorveglianza di massa e catalogare i volti dei palestinesi senza il loro consenso, utilizzando tecnologie dell’azienda israeliana Corsight e Google Photos. Una realtà quotidiana – per quanto distopica – che riguarda milioni di persone.

Il messaggio è chiaro: i palestinesi sono diventati cavie involontarie per testare tecnologie che potrebbero poi essere vendute e utilizzate altrove nel mondo. In merito Amnesty International ha accolto con favore la richiesta di un importante investitore olandese affinché TKH Group, produttore di telecamere installate a Gerusalemme Est occupata, adotti salvaguardie per i diritti umani entro un anno o affronti la fine degli investimenti come conseguenza.

La sorveglianza di massa non conosce confini. La domanda da porsi, allora, è: se queste tecnologie vengono normalizzate nei territori occupati, quanto tempo ci vorrà prima che vengano utilizzate anche dai nostri governi?

Il costo nascosto del successo: sostenibilità e limiti del modello israeliano

Alla luce delle informazioni ormai disponibili, il successo economico dell’industria cyber israeliana va esaminato senza tralasciare i suoi “costi nascosti”. Nel 2024, Israele è stato il secondo paese più colpito al mondo da attacchi informatici, con 1.550 attacchi, principalmente da gruppi filo-palestinesi che si oppongono alle politiche israeliane in Medio Oriente. L’intensità del conflitto ha triplicato gli attacchi cyber dal 7 ottobre 2023.

Ma ci sono limiti anche nei sistemi fisici tanto celebrati: ogni interceptor dell’Iron Dome costa 50.000 dollari e, durante conflitti prolungati, la necessità di rifornimenti diventa critica.

In questo senso la principale caratteristica della sicurezza israeliana, ossia l’integrazione militare-civile, potrebbe trasformarsi in una debolezza.

Inoltre, la dipendenza di Israele dall’export militare – con il 65% della produzione di alcune aziende destinato all’estero – crea vulnerabilità economiche che potrebbero ritorcersi contro in caso di cambiamenti geopolitici.

La Spagna ha già cancellato contratti per centinaia di milioni di euro con aziende israeliane nel 2025, dichiarando un embargo sulle armi e accusando Israele di “genocidio a Gaza”: il fatto che anche alleati tradizionali inizino a prendere tali posizioni dovrebbe suonare come un campanello d’allarme per un’industria così dipendente dalla reputazione internazionale.

Verso il 2030: la cyber-supremazia israeliana

Le proiezioni per il futuro sono impressionanti. Il mercato della cybersecurity globale raggiungerà 212 miliardi di dollari nel 2025, con una crescita del 15,1%. Dal canto suo, il mercato cyber israeliano passerà da 1 miliardo nel 2025 a 1,5 miliardi nel 2030.

E i numeri raccontano solo una parte della storia. La vera rivoluzione è che Israele sta definendo gli standard globali della cybersecurity per il prossimo decennio. Con tempi di risposta in millisecondi, capacità di processing avanzate e tassi di successo elevati contro attacchi State-sponsored, il paese si conferma l’architetto principale della difesa digitale occidentale.

In questa scalata apparentemente inarrestabile, tuttavia, non sono mancate battute di arresto e vicende ancora tutte da chiarire.

L’ombra di Pegasus: quando la tecnologia diventa strumento di repressione

Dietro il luccichio della “Startup Nation”, infatti, si nasconde una storia meno raccontata: quella di NSO Group e del suo famigerato spyware Pegasus.

Nel maggio 2025, un tribunale californiano ha condannato NSO Group a pagare 167 milioni di dollari di danni per aver spiato, tramite il software commercializzato dalla società israeliana, oltre 1.400 utenti di WhatsApp. Non si tratta di un caso isolato; Pegasus è stato utilizzato per spiare giornalisti, attivisti, avvocati e persino capi di Stato, da Jamal Khashoggi prima del suo assassinio a Emmanuel Macron, fino ai dissidenti politici in Giordania, Kazakistan e Rwanda.

Classificato come arma in Israele, Pegasus richiede un’approvazione governativa per l’esportazione, eppure è finito nelle mani di regimi autoritari in almeno 40 paesi. Il paradosso è stridente: un paese che si presenta come campione della democrazia occidentale vende tecnologie di sorveglianza che vengono sistematicamente usate per sorvegliare giornalisti e reprimere oppositori politici. Nel 2021, l’amministrazione Biden ha inserito NSO Group nella blacklist commerciale e ha vietato alle agenzie federali l’uso di spyware commerciali dopo aver scoperto che almeno 50 dipendenti governativi statunitensi avevano i telefoni infettati da Pegasus.

La compagnia, che ha perso 9 milioni nel 2023 e 12 nel 2024, incarna un dilemma etico irrisolto: quanto è accettabile che un’industria prosperi vendendo strumenti che – indipendentemente dalle intenzioni dichiarate – finiscono regolarmente per violare i diritti umani fondamentali?

Conclusione: la sicurezza del futuro, o un’architettura della complicità?

Dal complesso segreto nel deserto del Negev alle sale consiliari di Berlino, da Wall Street alle stanze dei bottoni di Washington, la tecnologia israeliana sta ridefinendo il concetto stesso di sicurezza nazionale nell’era digitale.

L’evoluzione dall’Iron Dome fisico ai sistemi integrati di cyber-defense rappresenta più di una storia di successo in campo tecnologico: è l’architettura fondamentale sulla cui base l’Occidente costruirà la propria sicurezza digitale nei prossimi decenni.

Sebbene il successo tecnologico israeliano sia innegabile, presentarlo come una storia pura di innovazione e necessità senza confrontarsi con le sue implicazioni etiche è una narrazione pericolosamente incompleta. La “Startup Nation” ha costruito un impero cyber su tre pilastri: eccellenza tecnologica, integrazione militare-civile e mercati occidentali compiacenti.

Ma questo modello ha prodotto anche Pegasus nelle mani di dittatori, strumenti AI che automatizzano la morte con supervisione umana minima, sistemi di sorveglianza di massa testati su popolazioni civili. L’Occidente, mentre proclama di difendere i diritti umani, è diventato il maggiore cliente e finanziatore di queste tecnologie, creando un circolo vizioso di indifferenza e complicità.

L’Europa è diventata il principale mercato per l’industria militare israeliana, con circa il 54% degli export destinati al continente; le importazioni europee di armi israeliane sono aumentate del 155% tra il 2020 e il 2024.

E quando la Spagna ha deciso di sospendere gli scambi di armi con Israele nel 2025, ha scoperto che sostituire rapidamente i fornitori israeliani sarebbe stato difficile. Questa situazione crea un paradosso: l’Europa, che aspira all’autonomia strategica, si ritrova sempre più dipendente da un paese di 9 milioni di abitanti per tecnologie critiche di difesa.

Nel futuro digitale che stiamo costruendo, la tecnologia israeliana potrebbe davvero essere indispensabile per la nostra sicurezza. Ma dobbiamo chiederci, quando abbracciamo questi sistemi senza riserve critiche, se stiamo proteggendo la democrazia o costruendo l’infrastruttura della nostra futura sorveglianza totale.

La questione non è solo tecnica, ma profondamente etica: quando uno strumento di sicurezza diventa un’arma contro giornalisti e dissidenti, l’industria cyber perde la sua presunta neutralità morale. La risposta a questa domanda definirà non solo il futuro della cybersecurity globale, ma anche i valori su cui l’Occidente intende costruire la propria difesa nell’era digitale.

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