Cybercrime conference, Il modello italiano di contrasto al Cybercrime: un ecosistema in trasformazione nell'era digitale

Il modello italiano di contrasto al Cybercrime: un ecosistema in trasformazione nell’era digitale

Nella prima Tavola Rotonda tenutasi durante la 13a Edizione della Cyber Crime Conference, il 16 aprile 2025, sono intervenuti:

  • Luigi Birritteri, Capo del Dipartimento per gli affari di Giustizia;
  • Ivano Gabrielli, Direttore del Servizio Polizia Postale per la Sicurezza Cibernetica;
  • Gianluca Galasso, Direttore del Servizio Operazioni dell’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale;
  • Pasquale Stanzione, Presidente dell’Autorità Garante per la Protezione dei Dati Personali;

Moderatrice: Donatella Curtotti, Professoressa ordinaria in Diritto processuale penale presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Foggia.

L’incontro ha analizzato – attraverso le prospettive dei principali attori istituzionali coinvolti – l’ecosistema italiano di contrasto al cybercrime, evidenziando l’interazione tra aspetti investigativi e giudiziari, nonché le metodologie operative attuali e le sfide future nella lotta al crimine informatico.

Ne è emersa con chiarezza la necessità di un approccio investigativo multidisciplinare, che sappia contemperare le esigenze di sicurezza con il rispetto dei diritti fondamentali.

Nel panorama della sicurezza nazionale sta prendendo forma, con la discrezione che spesso accompagna le rivoluzioni più profonde, una trasformazione tale da sovvertire categorie consolidate da decenni.

La Tavola Rotonda “Il Modello Italiano di Contrasto al Cybercrime: dalla Prevenzione all’Azione Giudiziaria” ha portato alla luce questo fermento sotterraneo, rivelando come le architetture istituzionali tradizionali stiano subendo una metamorfosi tanto ineludibile quanto necessaria: le rigide distinzioni tra gli ambiti della prevenzione e della repressione, come anche tra le dimensioni della sicurezza e della giustizia, stanno cedendo il passo a un approccio sempre più osmotico e integrato.

Guarda la registrazione video del panel:

La prof.ssa Donatella Curtotti, inaugurando la discussione, ha sintetizzato l’essenza di questa transizione epocale: «Nell’università italiana siamo abituati a insegnare che i vari comparti della sicurezza appartengono a funzioni diverse dello Stato: prevenzione e repressione da un lato, giustizia penale dall’altro. In questo quadro è stata poi calata, all’improvviso, la privacy».

donatella curtotti cybercrime conference

Un’impostazione profondamente radicata nell’architettura costituzionale e nel principio di legalità che ne costituisce il fondamento, a lungo tradotta nella netta separazione funzionale tra vari organi che raccoglievano e gestivano informazioni «in proprio»; con un’osmosi tra le diverse Agenzie che, quando avveniva, restava sempre «un po’ sotto il radar».

È proprio questa impalcatura concettuale e istituzionale che l’avvento del cyberspazio ha irreversibilmente destabilizzato.

Il cybercrime – fenomeno proteiforme per sua natura, caratterizzato da un’intrinseca transnazionalità, da una complessità tecnica in costante evoluzione e da una fulminea velocità di mutazione – ha fatto implodere le distinzioni spazio-temporali su cui si fondava l’intero edificio delle competenze separate.

«Con l’avvento del cyber», ha osservato la prof.ssa Curtotti, «tutto è cambiato. Il cyber altera completamente le dimensioni della vita, anche sul piano temporale; ed è ormai fondamentale anche in materia di investigazione».

In questo nuovo universo digitale, la tradizionale distinzione tra operazioni di intelligence e indagini di polizia giudiziaria è da ritenersi, nelle parole della moderatrice, «ormai obsoleta». L’urgenza della minaccia, la sua capacità di metamorfosi in tempo reale e la sua intrinseca extraterritorialità richiedono non solo una risposta coordinata ma un ripensamento fondamentale delle stesse categorie attraverso cui concepiamo la sicurezza e la giustizia nell’era digitale.

L’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale: architettura di una resilienza sistemica

Al cuore di questa trasformazione si colloca, con crescente autorevolezza, l’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale (ACN), istituita nel 2021.

Il dott. Gianluca Galasso, Direttore del Servizio Operazioni dell’Agenzia, ha tracciato con precisione la traiettoria evolutiva del nostro Paese: «Storicamente, l’Italia si è mossa in ritardo rispetto ad altre nazioni con cui ci confrontiamo. Se da qualche anno abbiamo colmato questo ritardo, rilevo che ancora c’è bisogno di raccontare il ruolo dell’Agenzia in questo ecosistema cibernetico».

Gianluca Galasso cybercrime conference

Tale riflessione svela due elementi significativi: la consapevolezza del ritardo italiano in ambito di cybersicurezza, nonché la natura ancora in divenire dell’architettura istituzionale di settore. La stessa denominazione del campo d’azione dell’ACN – la “cyber resilienza” – trascende la mera protezione dai rischi informatici, per abbracciare un concetto più ampio e dalla portata sistemica: «Occupandoci di cyber resilienza», ha precisato Galasso, «le nostre iniziative sono finalizzate a creare le condizioni affinché l’ecosistema digitale del paese sia protetto a livello adeguato».

In questa formulazione si coglie un elemento distintivo della strategia italiana, dove l’attenzione non è rivolta al singolo cittadino ma all’ecosistema digitale nel suo complesso, quindi alle infrastrutture che i cittadini utilizzano quotidianamente: «Il nostro compito non è proteggere la singola persona, bensì le infrastrutture digitali che poi le persone utilizzano, in ambito sia personale che professionale».

L’orizzonte operativo dell’ACN delinea, quindi, una cartografia delle priorità nazionali che può tradursi in una mappatura delle vulnerabilità sistemiche, includendo le infrastrutture critiche nazionali nonché gli apparati della Pubblica Amministrazione centrale e periferica, fino al vasto arcipelago delle PMI.

«Il tessuto produttivo delle piccole e medie imprese è ciò su cui sostanzialmente si regge il PIL nazionale», ha sottolineato Galasso; mettendo in luce una peculiarità dell’ecosistema economico italiano che, risultando particolarmente vulnerabile agli attacchi informatici, necessariamente si riflette nell’architettura della sicurezza cibernetica.

In tale contesto, accanto al rafforzamento del Perimetro di Sicurezza Nazionale cibernetica (PSNC), il recente recepimento della direttiva NIS2 ha rappresentato un punto di svolta sia quantitativo che qualitativo nell’approccio regolatorio. Il perimetro dei soggetti obbligati a conformarsi a requisiti di cybersicurezza ha subìto una dilatazione esponenziale, che riflette la crescente pervasività delle tecnologie digitali in tutti i settori dell’economia e della società; di conseguenza si è ampliato anche il ruolo dell’ACN, a cui spetta supportare tali realtà nel loro percorso di conformità ai nuovi requisiti.

Tuttavia, secondo l’analisi di Galasso, l’elemento rivoluzionario risiede nel “salto culturale” imposto dalla normativa europea: «Il vero messaggio della NIS2 è che la sicurezza è un tema di rischio aziendale, che quindi deve essere trattato al massimo livello all’interno dell’organizzazione».

In questa affermazione si coglie una transizione fondamentale: l’elevazione della cybersicurezza dal dominio puramente tecnico-operativo – tradizionalmente confinato ai reparti IT – a quello strategico-manageriale, che la colloca sullo stesso piano dei rischi finanziari, legali o reputazionali nel quadro della governance aziendale.

La Polizia Postale, dall’investigazione all’approccio multilivello

Sotto la guida del dott. Ivano Gabrielli, la Polizia Postale e delle Comunicazioni ha attraversato una profonda metamorfosi per fronteggiare le nuove sfide del cybercrime contemporaneo.

Ivano Gabrielli cybercrime conference

Un’evoluzione che, a ben vedere, ha riguardato le agenzie investigative di molti Paesi.
Gabrielli ha rievocato un momento topico di questa mutazione: nel 2006, in un contesto di crescente consapevolezza delle vulnerabilità digitali, una direttiva dell’allora Presidente USA Barack Obama stabilì che tutte le indagini concernenti attacchi a infrastrutture critiche nazionali dovessero essere affidate all’FBI.

Insieme al consolidamento del framework normativo internazionale (a cominciare dalla Convenzione di Budapest) il provvedimento, solo apparentemente settoriale, segnò l’inizio di un percorso che avrebbe portato a ripensare l’approccio investigativo ai reati informatici in tutto il pianeta.

Tale rivoluzione concettuale – nell’analisi di Gabrielli – consiste nell’adozione di un approccio multilivello, che vede sulla “scena del crimine informatico” diversi attori istituzionali, ciascuno portatore di competenze specifiche ma complementari.

«Oggi sulla stessa scena si presentano varie istituzioni», ha spiegato, «in risposta alle varie esigenze che si manifestano in seguito a un attacco cyber: l’esigenza di investigare, di rimettere in piedi i sistemi colpiti e di proteggere altri sistemi analoghi, nonché l’esigenza della lettura del fatto dal punto di vista della sicurezza nazionale ed eventualmente anche in termini di difesa nazionale».

Questa multidimensionalità del fenomeno, oltre alla compresenza di diversi attori, richiede anche una loro istituzionalizzazione. Se infatti sono sempre esistiti momenti di contatto tra Polizia giudiziaria e agenzie di intelligence, oggi ciò avviene attraverso organismi di coordinamento dedicati, come il Nucleo per la Cyber Sicurezza (NCS) o il Comitato di Analisi Strategica per la Sicurezza Cibernetica del Ministero dell’Interno; quest’ultimo esplicitamente modellato sull’esperienza delle strutture Antiterrorismo, a riprova della percezione della minaccia cyber come questione prioritaria di sicurezza nazionale.

La crescente complessità delle minacce informatiche ha imposto altresì un’evoluzione degli strumenti giuridici a disposizione degli investigatori. In merito, la Legge 137 del 2023 ha esteso al campo dei crimini digitali la possibilità di condurre operazioni sotto copertura, permettendo operazioni più incisive contro fenomeni come gli attacchi ransomware.

«Oggi», ha sottolineato Gabrielli, «non possiamo pensare di condurre attività investigative sulle organizzazioni responsabili di attacchi ransomware senza poter svolgere attività undercover, che ci danno la possibilità di andare oltre la semplice trattativa».

A questi strumenti si aggiungono le intercettazioni telematiche e l’introduzione della figura del collaboratore di giustizia nel settore cyber, anch’essa mutuata dall’esperienza nel contrasto alla criminalità organizzata tradizionale.

«Stiamo parlando veramente di un modo nuovo di concepire istituti giuridici che un tempo erano puntualmente riconducibili all’interno di singole competenze od organismi dello Stato: ora è tempo di ridefinire ruoli e responsabilità, per evitare il rischio di lasciare zone grigie e disperdere energie investigative» ha concluso Gabrielli, delineando così i contorni di un’autentica rivoluzione metodologica nell’approccio alle indagini sui reati informatici.

La ridefinizione della giurisdizione: il contributo del Dipartimento per gli Affari di Giustizia

L’intervento del dott. Luigi Birritteri, Capo del Dipartimento per gli Affari di Giustizia, ha introdotto nel dibattito un’ulteriore dimensione fondamentale, relativa al tema della giurisdizione.

Luigi Birritteri Cybercrime conference

Laddove infatti i crimini digitali travalicano sistematicamente i confini nazionali, il tradizionale principio di giurisdizione su base territoriale affronta una crisi epistemologica senza precedenti.

Birritteri ha esordito mettendo in guardia la platea dall’eccessiva “procedimentalizzazione” in tema di prove digitali, che rischia di ritardare la risposta ai reati cyber.

Ha quindi condiviso riflessioni maturate nell’esperienza da capo della delegazione italiana alle Nazioni Unite per l’elaborazione della Convenzione ONU sul Cybercrime, evocando «lo “squagliarsi” del concetto di giurisdizione come l’abbiamo conosciuta negli ultimi 100 anni, connessa al territorio inteso come spazio fisico».

In altre parole, la giurisdizione – tradizionalmente ancorata ai confini geografici e politici, delimitazione fondamentale degli Stati moderni – va oggi applicata a una realtà in cui le azioni criminali si compiono in uno spazio virtuale, senza confini definiti, sfuggendo così alle maglie tradizionali dell’esercizio del potere giurisdizionale.

Coerentemente, il relatore ha sottolineato come la risposta a questa sfida debba necessariamente collocarsi sul piano degli accordi sovranazionali.

Se la Convenzione rappresenta un passo nella giusta direzione, il cammino verso un sistema giurisdizionale adeguato all’era digitale è ancora lungo e irto di ostacoli sia pratici che concettuali; primo fra tutti l’obbligo di bilanciare le previsioni normative con la tutela dei diritti umani, senza lasciare che le differenze giuridiche e culturali tra diversi Stati consentano di “forzare la mano” rispetto alla difesa delle libertà democratiche.

L’intervento di Birritteri, necessariamente cauto dato il suo ruolo istituzionale – «la mia attuale delicata posizione non mi consente di spoilerare», ha precisato con una punta di ironia – ha tuttavia lasciato intendere che il Ministero della Giustizia stia lavorando attivamente per adeguare il quadro normativo alle sfide poste dalla criminalità informatica transnazionale, nell’ambito di un più ampio ripensamento degli strumenti giuridici tradizionali.

Il Settore Privato: da oggetto passivo a soggetto attivo della sicurezza informatica

Un elemento distintivo e innovativo del modello italiano in via di definizione è il progressivo riposizionamento del settore privato nel panorama della cybersicurezza.

Se tradizionalmente le aziende erano considerate semplici vittime degli attacchi informatici – o, nel migliore dei casi, testimoni durante la fase investigativa – oggi si assiste a una loro progressiva responsabilizzazione e integrazione come partner attivi nel sistema di prevenzione e risposta alle minacce.

Gabrielli ha delineato questa evoluzione in termini concreti e operativi, citando l’individuazione di referenti aziendali specializzati in cybersicurezza e l’istituzione della figura degli ausiliari di Polizia giudiziaria specificamente formati per il contesto cyber, nonché lo sviluppo di protocolli che chiariscono le responsabilità e i poteri dei privati.

«A questo punto, anche la parte privata deve avere un ruolo; e deve essere un ruolo a mio avviso strutturato», ha affermato, argomentando che ciò consentirebbe anche di «responsabilizzare e dare adeguati poteri a chi oggi è chiamato a intervenire, a vario titolo, nelle fasi di risposta agli incidenti e successive indagini».

Questa formalizzazione del ruolo del settore privato risponde a una necessità pratica imprescindibile: evitare di lasciare “zone grigie” in cui gli operatori, nel tentativo legittimo di proteggere i propri sistemi, rischiano di compromettere prove fondamentali o, paradossalmente, di diventare essi stessi oggetto di indagine per aver manipolato dati rilevanti per le indagini.

La costruzione di questo nuovo ruolo del settore privato si inserisce in una più ampia ridefinizione dell’ecosistema della cybersicurezza nazionale, in cui pubblico e privato non incarnano più entità separate (e talvolta contrapposte) ma nodi di una rete integrata di competenze e responsabilità, ciascuno con un proprio ruolo specifico eppure interconnesso con gli altri, in una logica sistemica basata sulla cooperazione.

La Privacy come baluardo democratico: la visione di Stanzione

In questa complessa trama di trasformazioni istituzionali e normative, l’intervento del prof. Pasquale Stanzione ha approfondito una dimensione fondamentale: quella del rapporto dialettico tra sicurezza e libertà all’interno delle società democratiche contemporanee.

Pasquale Stanzione Cybercrime conference

«Il rapporto tra privacy ed esigenze investigative» – ha esordito il Presidente dell’Autorità Garante per la Protezione dei Dati Personali – «è uno degli indici più significativi della resilienza di una democrazia».

Cruciale, nella costante (ri)modulazione di questo rapporto, è il principio di proporzionalità richiamato tanto dalla Costituzione italiana quanto dalla Carta dei diritti fondamentali dell’UE; principio sul quale la Corte di Giustizia europea ha basato un’innovativa giurisprudenza volta a «rivedere la disciplina della data retention sotto il duplice profilo dell’estensione temporale e delle garanzie di terzietà, con conseguente giurisdizionalizzazione della procedura acquisitiva dei dati».

Se è infatti vero che nelle strategie di contrasto alla criminalità e al terrorismo dobbiamo diventare più efficaci, ciò non deve mai portarci ad accettare di essere meno liberi, soprattutto perché non tutte le limitazioni delle libertà sono davvero in grado di renderci più sicuri.

In merito Stanzione ha citato i bias tipici dei sistemi di riconoscimento facciale basati sull’AI, rispetto alle quali esiste il concreto rischio di accettare forme di controllo che, peraltro, «non potrebbero mai indurre una reale sicurezza».

Rafforzare il sistema di “checks and balances” a tutela dei diritti fondamentali, mediante previsioni tassative che limitino l’ammissibilità di strumenti invasivi ai soli casi necessari, è allora il solo modo per scongiurare il rischio che l’azione investigativa finisca per degenerare in sorveglianza di massa, portandoci a «rinnegare le radici stesse della democrazia».

Stanzione ha ricordato come ciò costituisca un elemento dirimente delle libertà democratiche: «Non dobbiamo mai dimenticare che la logica del “nulla da nascondere” è stata da sempre il leitmotiv dei regimi totalitari».

Un’affermazione che vede la privacy non più in contrapposizione ma, anzi, in sinergia con una sicurezza intesa come condizione abilitante per l’esercizio delle libertà fondamentali entro un contesto digitale sempre più pervasivo.

Rispondendo a una domanda sul complesso tema del “dossieraggio”, Stanzione ha infatti concluso il proprio intervento con una nota cautamente positiva. «Nell’età dell’ansia e dell’incertezza, vorrei dare qualche elemento di tranquillità. Per quanto gravissime, le recenti vicende (su cui sono in corso le dovute istruttorie del Garante) rappresentano fatti “patologici”, senza essere di certo la normalità; e confermano, semmai, la necessità di una governance lungimirante che ponga al centro la protezione dei dati, tra i pochi presidi capaci di orientare l’innovazione in direzioni compatibili con la tutela delle persone».

Il “nodo gordiano” del processo penale: bilanciare efficacia e garanzie nell’era digitale

Al cuore del dibattito si colloca, pertanto, una tensione fondamentale e per certi versi irrisolta: quella tra esigenze operative della cybersicurezza – che richiedono rapidità di intervento e flessibilità degli strumenti – e principi del garantismo penale, ancorati a una tradizione consolidatasi nei secoli.

La prof.ssa Curtotti ha ribadito come l’impianto valoriale della Costituzione italiana, concepito in un’epoca pre-digitale, ponga talvolta limiti significativi alla velocità e all’efficacia della risposta investigativa.

Questo divario genera una tensione strutturale che vede, da un lato, l’urgenza di rispondere in tempo reale alle minacce informatiche; dall’altro, la necessità di rispettare le garanzie processuali e i diritti individuali che costituiscono l’ossatura dello Stato di diritto.

La sfida principale è stata identificata dalla moderatrice in quella che ha definito «eccessiva procedimentalizzazione dell’acquisizione probatoria», con cui si rischia di creare «momenti endoprocedimentali» tali da rallentare la risposta investigativa.

In un contesto dove gli attacchi informatici possono svilupparsi in pochi attimi e propagarsi a velocità esponenziale, nonché dove le prove possono essere cancellate o alterate con la medesima rapidità, le tempistiche del processo tradizionale rischiano di tradursi in inefficacia; d’altronde, sacrificare le garanzie processuali sull’altare dell’efficienza investigativa significherebbe minare i fondamenti stessi dello Stato di diritto.

Emerge così un complesso bilanciamento tra esigenze di sicurezza e rapidità d’azione, garanzie individuali e diritti fondamentali, efficacia investigativa e utilizzabilità processuale delle prove digitali.

«È un problema di bilanciamento di interessi e di valori: sicurezza e garanzie individuali, sicurezza e processo penale, sicurezza e diritti fondamentali…» ha sintetizzato Curtotti, delineando il nucleo di una questione che trascende gli aspetti puramente tecnici o procedurali per investire i fondamenti stessi della concezione di giustizia nell’era digitale.

L’Ecosistema italiano della sicurezza informatica: un laboratorio di innovazione normativa

Grazie alle diverse voci coinvolte nel dibattito, è stato possibile delineare un modello italiano di contrasto al cybercrime caratterizzato da svariati elementi distintivi, che configurano un approccio originale alle sfide della sicurezza nell’era digitale.

cybercrime conference

In primo luogo un’integrazione istituzionale che, pur rispettando le diverse competenze, favorisce il dialogo e la collaborazione tra autorità diverse: l’ACN come perno della strategia preventiva, la Polizia Postale con il suo ruolo investigativo in evoluzione, i servizi di intelligence con la loro capacità di lettura geopolitica delle minacce e la magistratura con il suo ruolo di garanzia giurisdizionale e l’Autorità per la protezione dei dati come presidio dei diritti fondamentali nell’ecosistema digitale.

In secondo luogo, un approccio sistemico che non si limita alla protezione delle infrastrutture critiche ma abbraccia l’intero tessuto economico e sociale; con un’attenzione particolare alle PMI, in quanto peculiarità del sistema produttivo italiano e, al contempo, uno tra gli anelli più vulnerabili nella sicurezza digitale del paese.

Un terzo elemento caratterizzante è il crescente coinvolgimento del settore privato, che da destinatario passivo di misure di protezione diventa partner attivo nella prevenzione e risposta agli incidenti, con ruoli e responsabilità formalmente definiti all’interno del sistema.

A questi si aggiunge l’evoluzione degli strumenti giuridici che cerca di adattarsi alle specificità del dominio cyber, introducendo risorse come le operazioni sotto copertura o la figura del collaboratore di giustizia nel settore informatico, mutuati dall’esperienza nel contrasto ad altre forme di criminalità organizzata.

Il tutto si inscrive in un costante – e talvolta complesso – bilanciamento tra esigenze di sicurezza e tutela dei diritti fondamentali, con una particolare attenzione al valore della privacy come elemento costitutivo della democrazia, in una dialettica che non contrappone sicurezza e libertà ma le concepisce come dimensioni sempre più complementari.

Infine, il modello italiano si caratterizza per una forte proiezione internazionale; nella consapevolezza che le sfide poste dal cybercrime possono essere affrontate efficacemente solo nel quadro di una cooperazione globale che richiede di ripensare profondamente alcuni concetti fondamentali, tra cui la giurisdizione su base territoriale.

Questo modello, ancora in evoluzione e per certi versi sperimentale, qualifica l’Italia come laboratorio di innovazione istituzionale e normativa, nonché potenziale modello di riferimento per altri paesi. La vera sfida per il futuro sarà mantenere l’equilibrio dinamico tra efficacia operativa e rispetto dei principi fondamentali in un contesto tecnologico caratterizzato da minacce cyber sempre più sofisticate e pervasive.

Il panel si è concluso con un approfondimento sulla regolamentazione normativa dell’Intelligenza Artificiale: i relatori hanno concordato sulla necessità di proseguire nella ricerca e nella sperimentazione sull’AI, senza lasciare che le pur necessarie cautele rallentino eccessivamente lo sviluppo di una tecnologia dall’enorme potenziale.

A emergere dalla Tavola Rotonda è allora l’immagine di un paese che, sebbene sia partito in ritardo nella corsa alla cybersicurezza, sta recuperando terreno grazie a un approccio che combina pragmatismo operativo e sensibilità ai valori dello Stato di diritto. Un equilibrio difficile, frutto di costanti negoziazioni, che tuttavia – in un’epoca in cui la dimensione digitale e fisica appaiono ormai indissolubilmente intrecciate – costituisce l’autentica peculiarità del “modello italiano” di contrasto al cybercrime.

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