Le sfide della rivoluzione digitale

La rivoluzione digitale crea destabilizzazione e turbolenza sociale in tutto il mondo. L’applicazione simultanea ed inedita di quattro potenti “forze” tecnologiche (connettività, velocità, memoria e automazione) sta modificando profondamente la società contemporanea: la vita quotidiana delle persone, l’organizzazione del lavoro, il funzionamento dei poteri sovrani. Ma la grande rivoluzione tecnologica che caratterizza la nostra epoca produce effetti profondamente differenziati nei diversi contesti nazionali. In alcuni Paesi essa è un fattore di crescita economica e di benessere sociale.

In questo caso la disoccupazione indotta dalle nuove tecnologie è compensata dalle nuove opportunità di lavoro che si creano nei servizi, nell’industria e nei centri di ricerca. In altre nazioni, viceversa, il saldo è decisamente negativo. Da un lato cresce in misura esponenziale la dipendenza tecnologica e commerciale dall’estero, dall’altro l’introduzione di processi di automazione nelle imprese e nella pubblica amministrazione crea inevitabilmente nuovi eserciti di disoccupati. Il diverso impatto della rivoluzione digitale nei singoli Paesi dipende sostanzialmente da tre fattori:

  • politiche pubbliche rivolte all’innovazione tecnologica ed agli investimenti in ricerca e sviluppo;
  • proiezione internazionale delle imprese;
  • capacità del sistema politico- amministrativo di adattarsi rapidamente ai nuovi imperativi del mondo digitale.

L’assenza di una politica digitale (cyber public policy) può produrre danni gravissimi nel breve e nel medio periodo. Da un lato l’Italia, rischia di perdere la più rilevante opportunità di crescita di questo decennio (posti di lavoro qualificati in tutti i settori industriali e nei servizi, ricerca universitaria e privata, produzione di know how, imprese innovative e startup)[1] . Un sintomo di queste difficoltà è dato dal fatto che le grandi major digitali hanno ormai in Italia esclusivamente uffici commerciali, a differenza di quanto avviene in altri Paesi europei. Dall’altro la situazione rischia di aggravarsi sul piano della sicurezza dal momento che l’appropriazione indebita di brevetti, ricerche, prototipi, ecc. sta crescendo a livello esponenziale mettendo a repentaglio il patrimonio industriale, tecnologico e scientifico italiano. A differenza di altri Paesi, nel mondo imprenditoriale (salvo le grandi banche e un piccolo numero di grandi gruppi) e in quello della ricerca – per non parlare del vasto pubblico – il cosiddetto cyber security awareness è tuttora inesistente persino a livello dei manager aziendali[2]. Crescita e sicurezza sono in realtà due facce della stessa medaglia, in quanto una strategia digitale competitiva e orientata allo sviluppo non può non comprendere una dimensione security caratterizzata dai più elevati standard internazionali.

Un ulteriore elemento di debolezza è costituito dalla frammentazione del processo di digitalizzazione della PA che in teoria potrebbe rappresentare uno straordinario volano di crescita per il sistema Paese, ma che risulta viceversa privo di una visione unitaria capace di garantire interoperabilità tra le diverse amministrazioni e dalle amministrazioni verso i cittadini e le imprese. Le forniture pubbliche di servizi digitali (diversi miliardi di euro ogni anno) non hanno a monte un piano di riorganizzazione della PA capace di sfruttare in modo efficiente e creativo la vasta gamma di soluzioni offerte dalla rivoluzione digitale.

In alcuni casi – in assenza di un modello organizzativo ben definito – la digitalizzazione di alcune procedure ha prodotto e produce tragi-comici effetti boomerang.

Non si intendono qui negare alcuni progressi (fatturazione elettronica e ricettari medici digitali in alcune regioni virtuose, ecc.)[3], tuttavia la dispersione di energie e la frammentazione istituzionale sono ancora elevatissime, come peraltro ha dimostrato il dibattito parlamentare sull’emendamento Quintarelli in sede di riforma costituzionale (in questo caso un risultato politico decisamente positivo). L’ambiguità normativa e gestionale che ha contraddistinto il ruolo e le attività dell’Agid è un altro esempio delle difficoltà esistenti. In linea di principio, non sarebbe difficile delineare una politica governativa, investimenti pubblici e una legislazione all’altezza delle nuove sfide, anche perché è oggi possibile far tesoro delle esperienze positive e negative di altri paesi[4]. Il punto centrale non è di policy, ma di politics (la governance in area Cyber) e di comunicazione politica.

La rivoluzione prodotta dallo spazio digitale pone in termini nuovi la stessa responsabilità politica dello stato moderno, in termini di strutture amministrative, processi decisionali, diritti civili, sicurezza e servizi al cittadino.

Su questo punto in Italia si registra un grave ritardo culturale e politico. Il tema è sostanzialmente assente dallo spazio pubblico; così come scarsa è la partecipazione delle università e delle imprese nazionali ai grandi appuntamenti internazionali sulla governance e sul futuro di Internet e del cyberspace[5]. In Italia sul piano della politics la molteplicità delle autorità politiche deputate (Ministro dello sviluppo economico in primis, Ministro della Funzione Pubblica, Interni, altri ministeri, Regioni, ASL, grandi comuni, ecc.) è in palese contrasto con la natura stessa della rivoluzione digitale. Essa, infatti, per essere efficace, richiede di rompere i compartimenti stagni, le isole di potere e impone una visione trasversale e unitaria che consenta di agire con velocità, con una catena di comando chiara e secondo una logica modulare e net-centrica coerente con una visione a lungo termine dell’intero sistema Paese.

Una nuova cabina di regia tuttavia, non deve rappresentare, come spesso è accaduto in Italia, un livello burocratico aggiuntivo teso a verificare adempimenti procedurali in chiave legalistico-giuridica. Se tale dovesse essere il rischio, meglio non farla.

Al contrario, si tratta di realizzare una struttura capace di dare input strategici che consentano di disegnare l’architettura complessiva di un sistema in linea con i più elevati standard internazionali (non solo le grandi potenze, ma anche il Regno Unito, la Germania e la Francia, per non parlare di piccoli Paesi come Israele e l’Estonia dove la digitalizzazione ha costituito un rilevante fattore di crescita economica)[6].

Tuttavia, oltre a un grave problema di politics/governance, esiste un altro aspetto critico di non facile soluzione, quello di una comunicazione politica decisamente fuorviante.

Nella percezione della maggioranza della classe politica, dei media e dell’opinione pubblica, la dimensione digitale è erroneamente associata a immagini effimere: al “gioco” dei selfie e dei cinguettii, al successo dei social network o comunque alla leggerezza del virtuale come se fosse un pianeta immaginario ed alieno dalla vita reale. Niente di più sbagliato. Queste immagini effimere sono solo la punta di un enorme iceberg. La distinzione tra virtuale e reale non esiste più, se mai è esistita in precedenza. In ogni caso siamo oggi di fronte ad una nuova e gigantesca “rivoluzione industriale” che ha riflessi dirompenti sulla vita di tutte le imprese, delle pubblica amministrazione e di ogni singolo cittadino (sia sul piano sia lavorativo che della vita privata).

E’ sbagliato pensare alla crisi economica come un effetto esclusivo della crisi finanziaria, anche se essa ne ha costituito un rilevante acceleratore; la crisi è dovuta a un cambiamento sistemico dove i modelli organizzativi aziendali, i prodotti, le metodologie di produzione stanno cambiando rapidamente, spazzando via alcune categorie di lavori e creandone di nuovi più qualificati[7]. Di conseguenza, sul piano economico vinceranno i paesi più avanzati sul piano digitale e più aperti all’innovazione, i paesi che sapranno mantenere i propri cervelli e attirarne di nuovi.

La rivoluzione digitale ha inciso profondamente anche nelle dinamiche della politica internazionale. Il cyberspace è diventato a tutti gli effetti un elemento di high politics[8], un terreno di confronto/scontro tra le grandi potenze anche per la crescente convergenza e integrazione tra dimensione civile e militare. Per queste ragioni è il momento di rompere gli indugi: occorre dotare l’Italia di una strategia, di una struttura di governance e di una capacità organizzativa all’altezza delle sfide della rivoluzione digitale.

NOTE

  1. Frey. C.B, Osborne, M..A The Future of Employment – Oxford Martin School, 2013, http://www.oxfordmartin.ox.ac.uk/publications/view/1314
  2. http://www.dhs.gov/publication/stopthinkconnect-industry-resources
  3. Un caso su cui riflettere è ad esempio la dichiarazione dei redditi precompilata che nella prima fase sperimentale non include le detrazione sanitarie.
  4. https://www.academia.edu/12345063/Cyber_security_and_Cyber_defence_ in_the_UK_and_Germany
  5. https://www.gccs2015.com/programme
  6. http://www.tau.ac.il/~liort/Cybersecurity%20in%20Israel.html
  7. Frey. C.B, Osborne, M..A The Future of Employment – Oxford Martin School, 2013
    http://www.oxfordmartin.ox.ac.uk/publications/view/1314
  8. https://www.academia.edu/4509736/La_politica_Internazionale_nellEra_Digitale_bozza_da_non_citare

A cura di Marco Mayer, Professor of Cyberspace and International Politics, SSSUP, Pisa

Articolo pubblicato sulla rivista ICT Security – Giugno 2015

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