Metadati delle e-mail dei dipendenti: il punto sul provvedimento del Garante sottoposto a consultazione pubblica

I metadati delle comunicazioni di posta elettronica dei dipendenti possono essere conservati dai datori di lavoro, al più tardi, per 7 giorni, prorogabili con motivate ragioni per ulteriori 48 ore.

Lo ha stabilito il Garante all’interno di un provvedimento di indirizzo datato 21 dicembre 2023, reso pubblico il 6 febbraio 2024. Le nuove regole sui metadati hanno colto di sorpresa aziende e professionisti, sollevando malumori in dottrina, anche già solo per la mancanza di spiegazioni in merito alla determinazione di una durata così precisa, rigida e breve. La posizione dell’Autorità di controllo ha enormi impatti concreti, sia per le conseguenze bloccanti (inutilizzabilità dei dati) sia per i profili di responsabilità civile, amministrativa e perfino, in qualche caso, penale che il provvedimento in questione evoca.

Sull’onda delle ampie reazioni negative, lo stesso Garante ha successivamente maturato cautele, tanto da decidere di sottoporre la congruità dei termini e di altri passaggi a consultazione pubblica con un pacchetto di atti amministrativi reso disponibile il 27 febbraio 2024. La consultazione si è aperta il 16 marzo con la pubblicazione del relativo avviso in Gazzetta Ufficiale (serie generale, n. 64) e avrà termine il prossimo 15 aprile.

Si può partecipare, facoltativamente, inviando osservazioni presso la sede di piazza Venezia n. 11 – 00187 Roma o all’indirizzo di posta elettronica ordinaria protocollo@gpdp.it oppure via pec a protocollo@pec.gpdp.it, indicando nell’oggetto «Consultazione sul termine di conservazione dei metadati generati e raccolti automaticamente dai protocolli di trasmissione e smistamento della posta elettronica».

Va tenuto in ogni caso presente che gli apporti che perverranno non vincolano in alcun modo l’Autorità: “I contributi inviati dai partecipanti alla consultazione non precostituiscono alcun titolo, condizione o vincolo rispetto ad eventuali successive determinazioni del Garante”.

Facciamo dunque un punto sull’intera vicenda, con l’auspicio che possa essere utile alle imprese e ai professionisti che intendono partecipare alla consultazione pubblica. In particolare, saranno analizzati:

  1. i passaggi essenziali del provvedimento sui metadati;
  2. la logica giuridica sottostante;
  3. i principali elementi di perplessità; e,
  4. a monte, la questione più generale se il Garante disponga o non disponga del potere di imporre preventivamente e in senso generale termini di conservazione. Sia permesso sottolineare l’importanza di quest’ultimo punto, che costituisce la premessa logica idonea a travolgere non solo l’intera operazione prescrittiva del Garante ma anche tutte le altre similari su argomenti diversi.

I passaggi essenziali del provvedimento di indirizzo

Punto di partenza del ragionamento è che i metadati delle mail dei dipendenti sono dati personali, come tali sono sottoposti alla disciplina del GDPR, il regolamento (UE) 2016/679. Il passaggio è incontestabile, nella misura in cui essi siano collegati a un account email riferibile a uno specifico individuo. La nozione di “dato personale” è infatti quella di “qualsiasi informazione”, purché “riguardante una persona fisica” almeno identificabile, cfr. art. 4.1) GDPR.

Siccome la persona fisica in questione è un lavoratore subordinato, viene intercettata non solo la normativa sulla protezione dei dati personali, ma anche quella giuslavoristica, e in particolare – almeno in ipotesi – l’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, l. 300/1970, che proibisce, in linea generale, i controlli a distanza sui dipendenti.

Ma perché l’Autorità italiana sui dati personali dovrebbe occuparsi dell’art. 4 dello Statuto? Anche questo è in realtà un punto pacifico. Occorre infatti tenere presente che il principale tassello della normativa italiana di adeguamento al GDPR, ossia il cd. “codice privacy”, d.lgs. 196/2003, richiama appunto espressamente il menzionato articolo 4 dello Statuto, vedasi in proposito gli artt. 114 e 171 cod. priv.. È del resto lo stesso terzo comma della disposizione lavoristica in esame a prescrivere espressamente il “rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196”. Tali molteplici collegamenti permettono, e nello stesso tempo perimetrano, la diretta competenza del Garante.

Fermata dunque la cornice giuridica, veniamo al contenuto. I metadati di cui viene prescritta la conservazione per, al più tardi, 7/9 giorni sono, in via esemplificativa, i seguenti: “giorno, ora, mittente, destinatario, oggetto e dimensione dell’email”. Nel provvedimento del 21 dicembre 2023 non era fornita una soddisfacente definizione dei processi coinvolti, il che ha aperto a speculazioni e ipotesi.

Poi, nell’ultimo pacchetto di precisazioni l’Autorità di controllo ha lasciato intendere che i processi sono quelli riguardanti i “metadati generati e raccolti automaticamente dai protocolli di trasmissione e smistamento della posta elettronica e relativi alle operazioni di invio, ricezione e smistamento dei messaggi di posta elettronica (che possono comprendere gli indirizzi email del mittente e del destinatario, gli indirizzi IP dei server o dei computer coinvolti nell’instradamento del messaggio, gli orari di invio, di ritrasmissione e di ricezione, la dimensione del messaggio, la presenza e la dimensione degli eventuali allegati, in certi casi anche l’oggetto del messaggio spedito o ricevuto)”, cfr. GPDP, provv. 24 febbraio 2024, avviso pubblico di avvio della consultazione. Un perimetro dunque molto vasto. I trattamenti descritti sono evidentemente necessari al funzionamento stesso dei protocolli di gestione della posta elettronica, rilievo che rende ancora più drastico e impattante il provvedimento di indirizzo.

Gli ulteriori passaggi salienti esposti dal Garante appaiono i seguenti:

  • la conservazione dei metadati, anche di durata molto breve, va puntualmente motivata e contenuta;
  • deve essere, verosimilmente, preceduta da una valutazione d’impatto (DPIA);
  • fermo restando che può essere effettuata solo per finalità lecite, va preventivamente concordata con le rappresentanze sindacali oppure autorizzata dall’Ispettorato nazionale del lavoro (INL) ove superi il predetto termine massimo di 7/9 giorni.

I temi toccati sono in realtà più ampi e complessi, ma credo che quelli sopra esposti costituiscano una buona sintesi degli snodi più rilevanti. Sono tutti conseguenze applicative della sottostante logica giuridica seguita dall’Autorità.

La logica giuridica sottostante

L’art. 4 dello Statuto fu introdotto all’inizio degli anni ’70 con un preciso obiettivo: tutelare i dipendenti da videocamere di sorveglianza e/o microfoni, quali strumenti di controllo a distanza. Una garanzia che esprime lucidità e capacità di governare anche le future evoluzioni dei contesti di lavoro.

Mentre gli “impianti audiovisivi” restano ancora oggi l’oggetto principale della disposizione anche dopo le modifiche intervenute, come si evince sia dalla rubrica sia, soprattutto, dal primo comma, richiede invece un passaggio motivazionale in più, non immediato e non pacifico, considerare i metadati delle email alla stregua di “altri strumenti di controllo”, come fa appunto il Garante.

Orbene, affinché sia consentito l’uso di strumenti “dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori” occorrono due condizioni essenziali, come si è accennato: (i) che i controlli siano posti in essere per specifiche finalità lecite indicate dal legislatore; (ii) che sia in ogni caso raggiunto un previo accordo sindacale o, in mancanza, sia ottenuta un’autorizzazione dell’INL.

Si danno due casi sottratti al meccanismo generale descritto: quello degli “strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa” e quello degli “strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze”. Ora, la posta elettronica cade, pacificamente, nel primo gruppo, serve cioè a svolgere la prestazione lavorativa, tuttavia secondo il Garante, decorsi 7/9 giorni, ciò non sarebbe più vero rispetto ai relativi metadati, come se il passare del tempo determinasse il cambiamento ontologico di questi ultimi, vale a dire come se essi cessassero improvvisamente di essere una componente necessaria dello strumento di lavoro. Il passaggio appare privo di convincente motivazione, ma da esso l’Autorità trae il sicuro obbligo di assolvere alla descritta procedura di accordo/consultazione.

Il resto del provvedimento d’indirizzo è piuttosto riconducibile all’applicazione diretta di disposizioni del GDPR, in particolare all’articolo 5 che enuncia i principi da osservare nel trattamento di dati personali. La previsione, è noto, costituisce uno dei componenti strutturali della normativa, come più volte evidenziato dalla Corte di giustizia.

Infine, l’obbligo, se del caso, di procedere a DPIA va collegato all’art. 35 GDPR e soprattutto alle linee guida del 4 ottobre 2017 pubblicate e ratificate dalle autorità di controllo dell’Unione sui dati personali, vale a dire Garante e omologhi (ex WP29/EDPB).

Principali punti critici del provvedimento sui metadati

Termine privo di motivazione – Uno dei più evidenti elementi di perplessità, come osservato dai più, è che la precisazione del termine di conservazione di 7/9 giorni appare introdotta dal Garante senza alcuna motivazione. Manca cioè del supporto di un ragionamento che la renda verificabile razionalmente e giustificata giuridicamente. Inoltre, manca di un collegamento logico con il conseguimento della specifica finalità per cui i metadati sono trattati. Per la precisione, le finalità di trattamento possono qui essere più d’una, sono anzi certamente più d’una, dunque vanno necessariamente definiti tempi di durata diversi. Già questa considerazione appare inconciliabile con il termine massimo unico prescritto dall’Autorità. In definitiva, è proprio l’articolo 5 GDPR a imporre un approccio complesso, ispirato a necessità e proporzionalità, e motivato in stretta relazione alle finalità conseguite.

Il provvedimento non riguarda direttamente i grandi fornitori di soluzioni cloud – “È emerso” indica l’Autorità “il rischio che programmi e servizi informatici per la gestione della posta elettronica, commercializzati da fornitori in modalità cloud, possano raccogliere, per impostazione predefinita, in modo preventivo e generalizzato, i metadati relativi all’utilizzo degli account di posta elettronica in uso ai dipendenti […], conservando gli stessi per un esteso arco temporale”. Da questa premessa, ci si attenderebbe che il Garante attenzioni prima di ogni altra cosa tali grandi fornitori, anziché la moltitudine delle società e dei professionisti che se ne servono. L’Autorità è tenuta infatti a verifiche nei confronti dei responsabili del trattamento (tali sono i prestatori delle soluzioni in cloud) ove se ne ipotizzi la violazione dell’art. 32 GDPR. Sarebbe apparso l’approccio più efficace, poiché svolto nei confronti di pochi soggetti alla fonte, e tutto sommato più equo, visto che lo stesso Garante riconosce che i grandi fornitori pongono talvolta altresì “limitazioni al cliente (datore di lavoro) in ordine alla possibilità di modificare le impostazioni di base del programma informatico al fine di disabilitare la raccolta sistematica di tali dati o di ridurre il periodo di conservazione degli stessi”. La leva è in definitiva nelle mani di software house di primo piano, che tuttavia, a parte un generico invito a “a tenere conto del diritto alla protezione dei dati tenuto conto dello stato dell’arte”, appaiono fuori dal raggio applicativo del provvedimento.

I metadati sono parte essenziale della posta elettronica – I metadati sono componenti essenziali dello strumento di posta elettronica, e non solo perché contenuti negli header, ma in senso più ampio e pregnante: una corrispondenza senza mittente, destinatario, data, oggetto non è più una corrispondenza, ma testo libero, inutilizzabile. Uno strumento di lavoro deve essere integro e disponibile per tutto il tempo necessario all’attività per cui è adottato.

Il provvedimento del Garante è contemporaneamente prescrittivo e carente degli elementi per esserlo – Indubbiamente l’enunciazione di un termine così netto, 7/9 giorni, costituisce un passaggio prescrittivo incapsulato entro il corpo di linee guida. Come tale, i destinatari del precetto dovrebbero poterlo impugnare. Tuttavia, il provvedimento che ci occupa manca della precisazione della possibilità di ricorso, che è invece necessaria nei provvedimenti vincolanti dell’Autorità, come peraltro ricorda anche il considerando 129 GDPR. Ciò determina una notevole anomalia e reca pregiudizio al diritto di difesa dei destinatari dell’obbligo. Questa considerazione apre anche il ragionamento all’obiezione principale: può il Garante introdurre liberamente termini di conservazione dei dati personali di portata generale e preventiva? Ad avviso di chi scrive la risposta è negativa.

Il Garante non può derogare al principio di accountability

Il punto centrale è qui proprio l’art. 5 GDPR, che al paragrafo secondo introduce il noto principio di “accountability”, in italiano “responsabilizzazione”. Non che il Garante non lo menzioni nel provvedimento sui metadati, ma lo fa senza trarne le radicali conclusioni che ne derivano linearmente.

In base a tale principio, non compete all’autorità di controllo, ma al titolare del trattamento (quindi al datore di lavoro), stabilire i termini di conservazione dei dati personali. Ogni titolare del trattamento potrà determinarli in maniera diversa, vale a dire con durate diverse, e dovrà, ovviamente, essere in grado di motivare il termine scelto. Per farlo, dovrà inoltre individuare le finalità di trattamento dei metadati, calandole, nella misura possibile, sul suo caso concreto, e collegare a ciascuna di esse una durata. Va cioè escluso che si possano avere termini assolutamente coincidenti per più titolari e che siano sovrapponibili i termini di conservazione dei metadati per finalità di utilizzo della posta elettronica come strumento lavorativo, quelli di conservazione degli stessi per finalità di sicurezza informatica oppure ancora quelli di conservazione per finalità di esercizio e tutela di diritti. Cade con ciò completamente, ad avviso di chi scrive, la logica del termine massimo unico.

Ora, la regola dell’accountability costituisce un principio portante del GDPR, per questo ha destato stupore che il provvedimento in commento lo abbia sostanzialmente ignorato o, meglio, ridotto a operare entro lo spazio massimo di conservazione fissato invece d’autorità dal Garante.

La posizione centrale, di pilastro della normativa, occupata dall’art. 5 si riflette peraltro sulla sussistenza di limitatissime deroghe allo stesso. Nella specie nessuna di esse appare ravvisabile. Questo pone un limite fondamentale all’iniziativa del Garante, e soprattutto lo pone a monte.

Neppure la normativa nazionale richiamata come base del provvedimento d’indirizzo, ossia il comma 1, lett. a) dell’art. 154-bis cod. priv. sembra consentire contenuti prescrittivi: il legislatore parla chiaramente di “linee guida”, ossia testi di semplice chiarimento della disciplina in vigore.

Resta in ogni caso fermo che la normativa di adeguamento nazionale, come è appunto il codice privacy, non potrebbe mai introdurre deroghe all’art. 5 GDPR fuori dalle pochissime ipotesi consentite dal Regolamento.

Conclusioni

La conservazione così breve dei metadati delle email di lavoro è chiaramente bloccante per ogni attività economica privata, ma anche per l’agire pubblico (le previsioni in parola si applicano infatti anche alla pubblica amministrazione). Introduce inoltre un’impraticabile riduzione a una sola durata di periodi necessariamente diversi perché rispondenti a finalità diverse, rimesse alla competenza di ciascun titolare, a cui incombe naturalmente l’onere di dimostrarne la congruità.

Dunque è certamente positivo che il Garante abbia voluto creare, sia pure in seconda battuta, un’occasione di ampio coinvolgimento quale è appunto una consultazione pubblica. È altresì chiaro, per la stessa ragione, che questa volta qualcosa non ha funzionato inizialmente nei meccanismi interni di controllo dell’Autorità sui propri atti amministrativi. Lo dimostra la circostanza stessa che la consultazione pubblica investe elementi centrali del provvedimento d’indirizzo, vale a dire la “congruità […] del termine di conservazione dei metadati” “e più in generale […] le forme e modalità di utilizzo” degli stessi. L’auspicio è dunque che l’Autorità, ad esito della consultazione, ponga mano a una revisione radicale degli elementi di natura precettiva. Preceduta o no da consultazione pubblica, la fissazione di termini di durata appare infatti possibile, ai sensi del GDPR, soltanto al datore di lavoro titolare del trattamento, che non può trovarsi chiuso, a parere di chi scrive, entro una stretta gabbia temporale imposta d’ufficio dall’Authority.

Molti altri passaggi delle linee guida, sostanzialmente quasi tutti, costituiscono invece un’esposizione pregevole, in quanto offrono una sintesi delle regole applicabili, certamente opportuna per la comprensione e la pratica applicazione generale perché illustra i rapporti tra più livelli normativi, cercando di chiarirne l’intersezione. Sotto questo profilo, è certamente opportuno, a parere di chi scrive, che il Garante lasci intatte le parti del provvedimento di indirizzo genuinamente qualificabili come linea guida.

Articolo a cura di Enrico Pelino, PhD in IT Law, partner e co-fondatore dello studio legale Grieco Pelino Avvocati

Profilo Autore

Enrico Pelino è avvocato del foro di Bologna, DPO e co-fondatore dello studio legale Grieco Pelino Avvocati. Da sempre cultore dell’intersezione tra diritto e tecnologia, ha conseguito un dottorato di ricerca in diritto dell’informatica presso l’Università di Bologna, e quindi collaborato con associazioni del settore. Attualmente è fellow dell’Istituto Italiano per la Privacy e la valorizzazione dei dati (IIP) e componente del comitato tecnico-scientifico di Anorc Professioni. È altresì nella lista degli Esperti costituenti il “Support Pool” dell’EDPB (European Data Protection Board). Autore di numerosi articoli in riviste specializzate in materia di diritto digitale, invited speaker in primarie conferenze, ha svolto docenze in master per università ed enti di alta formazione. Per l’editore Giuffrè ha curato e scritto, assieme a colleghi di primo livello nazionale, volumi monografici e commentari in materia di protezione dei dati personali e disciplina della società dell’informazione: Il Regolamento Privacy Europeo (2016), Codice della Disciplina Privacy (2019); Privacy e libero mercato digitale (co-autore, 2021); Digital Services Act e Digital Markets Act (2023); Codice commentato della privacy (2024).

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